
di Valter Marcone
Oggi, 25 novembre, centinaia di iniziative sono state organizzate in tutta Italia per dire ‘no’ alla violenza di genere. E’ così che si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Perché proprio questa data? Non a caso, anzi. È stato scelto il 25 novembre per un motivo preciso quanto terribile. In quella data, nel 1960, furono torturate, massacrate e uccise tre donne, le sorelle Mirabal. Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal avevano la colpa, secondo le autorità del loro Paese, la Repubblica Dominicana, di pensarla a modo loro, di aver combattuto per difendere i loro diritti e i loro ideali. La loro forza e il loro impegno politico contro il dittatore dell’epoca Trujillo valse loro una terribile morte.
Scrive Hoda Ablan:
“[i]Quando se ne è andato
di lui mi è rimasto
solo me stessa[/i].”
Ma nell’assordante silenzio non solo della politica, le cronache riportano sempre più spesso di donne costrette a pagare con la vita l’odio degli uomini.
{{*ExtraImg_224702_ArtImgRight_283x515_}}Nel 2012, sono state uccise più di cento donne, una ogni due giorni. I dati di Telefono Rosa sono confermati da quelli dell’Istat: sebbene negli ultimi vent’anni si sia verificato un calo del numero generale dei reati violenti di circa un terzo, gli omicidi in cui le vittime sono donne fanno registrare preoccupanti picchi. Nel 2010 le donne uccise sono state 156; nel 2009 erano state 172; nel 2003 192 vittime. La presidente di Telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, non ha esitato a definirla «una mattanza che non può più essere possibile in un Paese civile».
Oggi sembra quasi una banalità ripetere i dati dell’OMS: la prima causa di uccisione nel Mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio (da parte di persone conosciute). Negli anni Novanta il dato non era noto e quando alcune criminologhe femministe verificarono questa triste realtà, decisero di “nominarla”. Fu una scelta politica: la categoria criminologica del femmicidio introduceva un’ottica di genere nello studio di crimini “neutri” e consentiva di rendere visibile il fenomeno, spiegarlo, potenziare l’efficacia delle risposte punitive.
Dietro questa parola c’è una storia lunga più di venti anni, una storia in cui le protagoniste sono le donne.
Marcela Lagarde, antropologa messicana, considerata la teorica del femminicidio, sostiene che “[i]la cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza, siamo davanti a una violenza illegale ma legittima, questo è uno dei punti chiave del femminicidio[/i]”.
Sono stati complessivamente 2.061 i femminicidi in Italia tra il 2000 e il 2011, arrivando a rappresentare nel 2011 il 30,9% degli omicidi totali: la percentuale più alta dell’ultimo decennio. La statistica, che approfondisce il femomeno della crescente “femminilizzazione” dell’omicidio è frutto di uno studio dell’Eures in collaborazione con l’Ansa.
{{*ExtraImg_224703_ArtImgRight_300x150_}}Negli ultimi tre anni, a leggere le tabelle, si riscontra una recrudescenza del fenomeno. Mentre nel 2005 si osserva una consistente contrazione, con 138 donne uccise, le vittime sono state 173 nel 2009, 158 nel 2010 e 170 lo scorso anno, su un totale di 551 morti per omicidio. Si è tornati, in termini assoluti, quasi ai livelli dei primi anni 2000, quando il totale delle vittime di omicidio era in generale notevolmente più alto: 199 femmincidi sia nel 2000 che nel 2003 quando i morti ammazzati sono stati in totale rispettivamente 754 e 668.
Le storie dei femminicidi cominciano sempre con uno schiaffo. Un piccolo episodio di violenza che spesso viene sottovalutato nella speranza che non accadrà ancora. E invece lo schiaffo si ripete, più forte. Sempre.
E si aggiunge anche altro.
“[i]Nonostante fossi stesa sul letto con il bimbo attaccato al seno, Vittorio ha iniziato a prendermi a pugni, sulla schiena e in testa. Ho protetto il bambino col mio corpo e lui, a quel punto, ha continuato a colpirmi forte alle spalle. Finita l’aggressione ha continuato a bere e dopo è crollato nel sonno. Il mattino dopo sembrava acquietato e motivò i suoi sospetti su di me col fatto che da quando era nato il piccolo rifiutavo sempre di fare sesso con lui. Nicola era nato solo da 12 giorni, gli ricordai che dopo il parto i medici avevano prescritto almeno 40 giorni di astinenza dai rapporti sessuali.[/i]”
E altro:
“[i]Marina di Massa, 28 luglio 2013. Marco Loiola, accecato dalla gelosia e da una storia che non accettava fosse finita, spara al presunto rivale lasciandolo in coma. Poi si reca al ristorante dove lavorava la moglie Cristina Biagi e la uccide. Quindi rivolge l’arma contro di sé e si suicida. Una famiglia sterminata. Restano due bambini, di 3 e di 10 anni. Soli[/i].
[i]San Tammaro di Caserta, 20 luglio 2013: il corpo di Katia Tondi, donna di 31 anni, viene trovato in casa privo di vita. Qualcuno l’ha uccisa. Indiziato del delitto il compagno, Emilio Lavoretano. In casa, al momento del delitto, c’era anche il figlioletto di Katia, 7 mesi. Solo.[/i]“
E altro ancora:
“[i]. . . Un giorno Roberto si è appostato nell’androne del palazzo e ha atteso la figlia di Alberta che usciva per andare al lavoro. L’ha strattonata violentemente e l’ha sbattuta con la schiena contro un muro: “Tu non devi rompere il cazzo o vedrai che ti succede, grandissima figlia di una mignotta”. Subito dopo entra nell’appartamento come una furia, comincia a scagliare piatti e altri oggetti verso Alberta, poi si accanisce contro la madre di lei, rompendole il cellulare col quale tentava di chiedere aiuto[/i] . . .”
Ci sono però altre vittime del femminicidio. Vittime di cui quasi nessuno parla mai, travolti dall’orrore di una violenza che confonde l’amore con il possesso. Vittime che non sono sotto i riflettori, perché minorenni. Ma proprio per questo più a rischio, infilati in percorsi fatti di affidamenti, adozioni, tribunali dei minori. Che fine fanno queste vittime? Che strumenti hanno e che strumenti fornisce loro la società per superare il trauma di un padre che uccide la propria madre? Come crescono?
Orfani, con due genitori scomparsi, o nella migliore delle ipotesi con uno dei due in carcere per ciò che ha fatto all’altro, questi bambini vengono scordati. Sono un esercito, ma nessuno se ne accorge. Oltre 1500 in Italia, secondo uno studio che sta portando avanti la dottoressa Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia all’Università Seconda di Napoli, consulente dell’Onu, della Nato e dell’Ocse in materia di violenza contro le donne e i bambini. Lo studio prende in esame i casi di bambini vittime del femminicidio tra il 2000 e il 2013 e dimostra una cosa: in Italia non esistono protocolli, percorsi, strumenti che offrano a questi orfani una vita migliore.
{{*ExtraImg_224704_ArtImgRight_300x225_}}L’11 maggio del 2011 il Consiglio d’Europa ha varato la Convenzione di Istanbul, il primo strumento giuridicamente vincolante per gli stati in materia di violenza sulle donne e violenza domestica. Al suo interno sono espresse misure per la prevenzione della violenza e per la protezione delle vittime, oltre ai i procedimenti penali per i colpevoli; la convenzione, inoltre, definisce e criminalizza le diverse forme di violenza contro le donne tra cui il matrimonio forzato, le mutilazioni dei genitali femminili, lo stalking, le violenze fisiche e psicologiche e la violenza sessuale. Ventinove Paesi hanno firmato la convenzione di Istanbul, compresa l’Italia, ma solo quattro l’hanno ratificata. L’entrata in vigore è condizionata dalla ratifica di almeno dieci Paesi, di cui otto appartenenti all’Unione Europea.
Basta alla violenza sulle donne. Basta alla paura di denunciare. Questi e altri obiettivi e intenti simili animano le numerose iniziative organizzate in molte città e centri della Penisola per informare e sensibilizzare la popolazione sull’importanza della denuncia della società civile della violenza contro le donne.
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