
di Valter Marcone
La luna al femminile. Prima parte
Biancamaria Frabotta (Roma, 1946)
[i]Di dormire con te non ho voglia
quando la luna giunge al primo quarto.
Un mantello fioco, casa per casa,
s’appoggia sugli insonni.[/i]
Bella è qui la sinestesia che coinvolge ben tre sensi: il tatto (mantello), l’udito e la vista nel termine “fioco” polisemico: fioca è una luce, fioco un suono…
Giovanna Bemporad (Ferrara 1928- Roma 2013) invece descrive tutto il corso della luna dal suo rosso sorgere al suo candore di luna piena. Alta nel cielo, rischiara “pianamente” l’orizzonte infinito, su tutto posa il suo velo, proprio questo velo fa immaginare chissà quale prodigio, nutre chissà quale illusione. È una luce che copre e nel frattempo scopre, che protegge, ma anche espone ai sogni, alle illusioni, all’attesa di un prodigio.
L’attesa, l’infinità della luce e dell’orizzonte fisico e mentale su cui la luna agisce, velando e disvelando, è ben rappresentata dalla presenza degli enjambement (ce ne sono ben 5 su 11 versi), un ritmo quasi leopardiano si potrebbe dire, cfr. l’Infinito, senza tema di esagerare, infatti, Giovanna Bemporad dedica un’altra poesia sulla luna proprio a Leopardi. Ma attenzione siamo nel Novecento e la luna è respinta dalle luci artificiali, un’esperienza che chiunque abiti in un centro abitato può fare: la terra lacera illusioni che la luna ritesse!
[i]Nasce la luna come rossa aurora
pianamente; rischiara illimitate
fissità d’ombre e alberi e campagne,
pura, dai globi elettrici respinta,
questa accorata solitaria. E sale
bianchissima, tra azzurre trasparenze,
l’arco del cielo, ritessendo il velo
delle illusioni lacerato in terra.
Nella sua grande luce meridiana
timidamente in me stanca rinasce
l’ingannevole attesa d’un prodigio.[/i]
{{*ExtraImg_226225_ArtImgRight_300x253_}}In Patrizia Cavalli (Todi, 1947) la luna è quasi piena, pur non descrivendone la luce, la lascia intuire, è una luminosità che si indovina dinamica. Questa luna è piena di energia e dona energia nuova alla poetessa, che si sente (ironicamente) più magra e quasi ninfa sola e non del tutto sola, perché al cospetto della luna. E l’astro, come accade a tutti coloro che la sanno osservare, l’inebria.
[i](…)
C’era la luna, a destra, quasi piena,
i temporali a nord l’avevano schiarita,
oh estate! più che dolce, necessaria.
E già più magra io ero
o mi sentivo, ninfa
quasi ardente anche se sola, non
sola veramente ero inebriata[/i]
La luce riflessa della luna vien detta da Antonia Pozzi (Milano 1912- 1938) faccia distolta dal sole, è l’unica luce che può persuadere il sonno. Solo la luce della luna in effetti si lascia contemplare.
[i]Notte
Aggiorna sulla luna
e a noi persuade il sonno
questa faccia distolta dal sole,
la campagna profondata negli oceani.[/i]
{{*ExtraImg_226226_ArtImgRight_300x415_}}Se la luce della luna è fenomeno sensibile, lo è molto meno la sua voce (per non parlare del suo odore). Forse solo i poeti possono udire (immaginare?) la voce della luna. Per Alda Merini (Milano 1931-2009) questa voce è urlo, è gemito: una luna dei dolori, quasi come una donna dei dolori.
In questa poesia ci sono molti degli stereotipi lunari: l’acqua, l’inconscio (la luna grava su tutto il nostro io), il chiaro di luna. Se la voce della luna è di tormento, ancora una volta è la sua luce chiara a indurre la poetessa, zingara, a fermarsi per un incontro d’amore.
[i]La luna geme sui fondali del mare,
o Dio quanta morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell’anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino.
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento,
quanto basti per darti
un unico bacio d’amore.[/i]
Questa luna compagna della morte, l’odore di luna alla fine della vita, è però sempre ambivalente, ambigua. È testimone di una violenza, di una verginità femminile violata, forse della sua stessa verginità lunare sporcata, eppure la luna e la violenza lasciano dietro di sé la vita: una bambina, alla poetessa una figlia.
[i]Il mio primo trafugamento di madre
Il mio primo trafugamento di madre
avvenne in una notte d’estate,
quando un pazzo mi prese
mi adagiò sopra l’erba
e mi fece concepire un figlio…
O mai la luna gridò così tanto
contro le stelle offese
né mai gridarono tanto i miei visceri
né il Signore volse mai il capo all’indietro
come in quell’istante preciso
vedendo la mia verginità di donna
offesa dentro un ludibrio.[/i]
La luna parla, la luna nella mente del poeta può arrivare a formare delle frasi che muovono l’aria della notte quieta e immobile, sono frasi che possono indicare indirizzi, rotte. Ma, secondo la poetessa Nicoletta Bidoia (Treviso 1968), sono rotte ancora incerte: si tratta pur sempre delle frasi della luna.
[i]L’ora è immobile e niente si rivela.
(…)
Solo – ogni tanto – le frasi della luna,
in alto, oltre gli abeti, muovono l’aria
come indirizzi notturni, rotte incerte dei venti
e del tornare.[/i]
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