
di Valter Marcone
La luna al femminile. Seconda parte.
Dove però la luna assume contorni davvero femminili è nelle poesie di due poetesse che furono amiche fra loro, che si suicidarono entrambe, uccise dalla depressione, che furono americane. Anne Sextone e Sylvia Plath.
{{*ExtraImg_226958_ArtImgRight_240x379_}}La luna e la donna sono solo nel titolo della poesia di Anne Sexton (Newton, 1928 – Weston,1974), tutta la lirica invece gioca su una totale immedesimazione, ma mai detta esplicitamente. La luna è descritta in modo simbolico, metaforico e al tempo stesso preciso, reale. Una luna che si relaziona con l’uomo, che si fa anche inquisire (viene in mente il “[i]che fai tu luna in ciel?[/i]” leopardiano).
Che si tratti della luna satellite che ha subito, o sta per subire, l’allunaggio? La lirica è contenuta in una raccolta pubblicata proprio nel 1969. Chissà, certo l'[i]uomo tuta[/i], l’uomo che inevitabilmente passerà sulla luna, può essere l’astronauta. Ma è anche l’uomo che “passeggia” sulla donna, la donna garage, la donna luna. Le immagini dell’uomo: [i]lanciarazzi[/i], [i]freddo freddo[/i], non sono lusinghiere. La luna e la donna cantano un canto che suona doloroso.
[i]Canto di luna, canto di donna[/i]
[i]Vivo di notte,
mi sento morire la mattina,
vecchia lampada dall’olio consunto,
pallida ossuta emunta,
nessun prodigio o strabilianza.
Io sono malconcia e sfigurata
ma tu nell’armatura sei possente
e devo predispormi al tuo passaggio.
Io fui sempre una vergine
vecchia e butterata.
Prima che il mondo fosse io fui.
Son stata arancia dai pori dilatati
color carota e grassa sfatta,
contemplata dagli attoniti
ho lasciato calare le mie O crettate
sui mari di Venezia e di Mombasa.
Sul Maine mi sono riposata.
Come un jet nel Pacifico sono precipitata.
Sul Giappone fui spergiura.
Ho lasciato che il pendolo oscillasse,
la mia borsa rigonfia, la mia luce
dorata, dorata intermittenza
su voi tutto baluginasse.
Così se devi inquisirmi, fallo.
Dopotutto non sono artefatta.
Lungamente ti ho guardato,
d’amor panciuta o vuota
mostrando senza fine le mie fasi alterne
a te, a te mio freddo freddo
uomo tuta.
Tu devi solo chiedere, e te lo concederò.
E’ praticamente garantito,
tu marcerai su me in me caserma.
Oh vieni veleggiando, vieni veleggiando
o tu lanciarazzi
o tu terrapieno
o tu progettatore.
Sigillerò la beltà del mio grand’occhio,
quartier generale di un distretto,
casa di un sogno.[/i]
Sylvia Plath (Boston1932 – Londra 1963) è la poetessa più corposa del percorso perché lei spesso usa la simbologia lunare, spesso si riferisce alla luna, spesso la descrive nei suoi versi. La luna è sempre uno spirito donna, quasi sempre è uno spirito negativo. Quella di Sylvia Plath non è una luna stereotipata e consolatoria, forse perchè nulla per la poetessa era consolatorio.
{{*ExtraImg_226959_ArtImgRight_300x300_}}Primo ritratto di luna – femmina. La poesia è giocata sulla metafora strutturale della rivale (del titolo) che è una luna. Il punto è come la Plath vede la luna: di un sorriso e di una bellezza che annichiliscono. La luna, come la rivale, umilia i suoi sudditi, una luna che quindi sottomette. La visione della luna e la visione della rivale sono ormai totalmente mescolate, anche attraverso la figura retorica della personificazione, infatti la luna ha una bocca a O. E così alla fine anche la rivale, come la luna, subisce la vendetta della poesia: sono infatti ridicole entrambe di giorno, alla luce, nella vita quotidiana, reale.
La rivale
[i]Se sorridesse, la luna somiglierebbe a te.
Tu fai lo stesso effetto:
di un qualcosa di bello ma che annichilisce.
Tutti e due siete dei grandi scroccatori.
La sua bocca a O si accora sul mondo;
(…)
Anche la luna i suoi sudditi umilia,
ma di giorno è ridicola.[/i]
Secondo ritratto femminile della luna, ci arriva, Sylvia Plath, per gradi. La luna è bianca, questa è una osservazione normale, ma è bianca come una nocca. Ora la similitudine acquisisce contorni nuovi e inquietanti, la nocca della mano è bianca quando la mano è chiusa a pugno. E infatti questa luna è terribilmente arrabbiata. Una luna che governa le maree, una luna contraddittoria quieta e disperata. Questa luna non ha risposte, non è una porta, ma una faccia. Forse è la faccia della madre della poetessa, [i]La luna è mia madre[/i], una madre senza tenerezza, senza dolcezza, senza possibilità di salvezza (non è Maria, cioè la Madonna). Ha vesti azzurre la luna, oppure Maria? Entrambe forse, da queste vesti azzurre che evocano un cielo terso o l’immagine classica della Madonna, proprio perché la luna è la madre della poetessa, si liberano animali notturni in genere considerati negativamente (e a torto): gufi e pipistrelli. Questa luna è distante, Sylvia diventa qui leopardiana. La luna è lontana, ma non è nemmeno più l’astro bello che nutre illusioni: è brulla e desolata.
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