
di Lucia Ottavi
Era freddo quella mattina. In molti erano pronti per affrontare una dura giornata di lavoro nei campi del Fucino. Da un po’ di giorni si sentiva parlare di strani fenomeni: gas infiammabile che fuoriusciva dai terreni situati nei pressi di Trasacco, l’acqua dei pozzi che aveva perso la sua limpidezza e, vicino a colle Marinucci, era diventata bollente. La gente considerava questi particolari avvenimenti “magici”, nulla lasciava presagire loro quello che di lì a poco sarebbe accaduto e avrebbe cambiato la storia di un intero territorio per sempre.
{{*ExtraImg_227115_ArtImgRight_300x232_}}Alle ore 7, 52 minuti e 43 secondi del 13 gennaio 1915 una scossa di magnitudo 7 della scala Richter (11°-12° grado della scala Mercalli) rase al suolo la Marsica. Le repliche, quasi un migliaio quelle registrate, diedero luogo ad uno sciame sismico che interessò l’intera regione per quasi un anno. Nella zona dell’epicentro e nel circondario era altamente riduttivo parlare di danni. Non esisteva più nulla.
{{*ExtraImg_227116_ArtImgRight_300x214_}}I paesi di Avezzano, Cappelle, Massa d’Albe, Ortucchio, San Benedetto, Pescina, Gioia dei Marsi, Lecce nei Marsi e Luco furono completamente distrutti. I soccorritori, infatti, ebbero enormi difficoltà a riconoscere i palazzi, le strade o le semplici abitazioni. Si calcola che il terremoto del 13 gennaio causò più di 30.000 vittime su una popolazione residente di circa 120.000 persone. Fu una vera e propria strage.
“[i]Sui sedili del treno sono i feriti più lievi[/i] – si legge nel libro di Bruno Vespa e Arnaldo Panecaldo “Marsica 1915” – [i]vecchie donne dal mento spezzato che gocciola sangue sul grembo; uomini anziani dalla testa rotta e ferita che non fanno un gesto e se ne stanno diritti e immobili, con un segno di vita negli occhi esorbitanti e nelle dita che s’accartocciano nervosamente; bambine in camicia che si contorcono dolorosamente sulle reni contuse. {{*ExtraImg_227117_ArtImgRight_300x400_}}Dei fratelli dei figli vanno pel vagone, come anime in pena, torcendosi le mani nel dolore del loro affetto impotente, coprendo i feriti con le coperte troppo corte. E su tutti, feriti e non, è un inebetismo strano, un’aria vaga e trasognata. Una donna geme perché ha paura del treno; ogni cosa che tremi la rende folle dal giorno dell’orrendo schianto; un’altra urla e si dimena: ha visto dal finestrino di un treno che è passato un viso che le è sembrato quello di suo marito. Chiama: Ettore! E’ Ettore! Per carità! E vuol slanciarsi, gettarsi giù dal finestrino, inseguir coi suoi piedi sanguinanti l’atroce chimera. La trattengono a forza per le vesti, per capelli scarmigliati. Ed urla, urla sempre: E’ Ettore! E’ Ettore. Lasciatemi andare. Piange tutto il vagone adesso, in un gran rilasciamento di lacrime che spetrano finalmente gli occhi troppo secchi di calcina e di pazzia; gli uomini nelle loro bende, le donne nei loro scialli, i bambini nelle loro camicine. Una donna agonizza laggiù. Ha cominciato a gridare altissimo contorcendosi, poi pian piano il grido è sceso di tono, è finito in un mugolio indistinto. Un farmacista che è venuto dal bagagliaio, si è curvato sulla sventurata, che non ha i sensi, poi si è rialzato. {{*ExtraImg_227118_ArtImgRight_300x225_}}E su tutti è passato il suo gesto disperato. Pian piano la monaca si è avvicinata, si inginocchia, prega. Tutto il vagone risponde in coro: “Ave Maria”, gratia plaena… “Ave Maria”, risponde il coro. I versetti sono punteggiati di singhiozzi . . . Poi il treno continua, col suo carico di carne martoriata nella tenebra spessa[/i]. Antonio Scarfoglio, Il Mattino, 15.01.1915”.
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