
di Valter Marcone
Un solenne angelo barbuto,
come se l’eternità s’incontrasse
fuori l’uscio di casa,
mi tende la mano
scatenando in corpo un sogno
scintillante;
una piccola estatica tromba
con una voce sbronza
intona in un motivo rotto e rauco
un trotto di cavalli dalle teste di gesso,
come su una pista di segatura da circo,
una marcia di insegne e cartelloni
e stendardi.
Io ero ubriaco di dolore
nel profondo del cuore
e mi camminava accanto un cane
scodinzolante.
Cantando e urlando, saltando sulle spalle delle gente
m’aggrappavo al collo degli uomini
per aggrapparmi al mondo
in cerca di benedizioni, di maledizioni, di preghiere
e bestemmie,
in quella vita fatta da uccelli di crespo,
cieli di carta sbiaditi
come gli edifici
i ciottoli, i campanili, le foglie.
Tutto sospeso poi nel silenzio giunto
come una mareggiata a girare l’anima delle cose
uscite grondanti dall’accquasantiera delle chiesa sulla piazza.
Io ero il volto, la figura, il corpo
del puro desiderio
rincorso fino alla terra dei ghiacciai azzurri;
io ero la nullità e la purezza
in tutto quel dolore,
l’estasi di una sera di piena dolcezza,
la voce megafono di una rapsodia di voci.
Io ero trattenuto nella notte
dalle ombre straripanti dai tetti,
prigioniero della visione di nitide stelle
di una vita ubriacata dal dolore
passata per caso in un incantesimo smarrito
di morte.
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