
di A.B.
E’ sera e sono affacciata alla finestra, mi accorgo solo accostandomi sul davanzale che il solito alberello, che metto a fuoco lentamente, è innevato, nel giardino di fronte, e mi guarda, come sempre.
Ogni giorno.Quando mi alzo cerco di trovare una motivazione che mi spinga ad uscire, ad affrontare il freddo, a preparare le mie iridi a constatare che ci sono ancora 100 gru lì fuori, e cento si fa per dire: purtroppo questo è diventato un gioco, come contare le stelle: mamma dai, (ogni volta come se fosse un momento speciale), ora che siamo sulla mausonia possiamo contare le gru che si intravedono dalla villa comunale. Quante sono?? Ancora troppe!
Entrando in galleria, mi rendo conto che oltre ad essere invasa dall’odore di gas e da quella poca luce gialla e squallida che emanano i lampioni, sono invasa da un senso.
Si, un senso difficile da definire, che probabilmente non esiste e non so spiegare. Hanno mai provato ad inventare una parola che riguarda solo lo status di una persona terremotata?
No, per me non è più un concetto generale, bensì un qualcosa che devo ancora capire.
E’ l’ennesima mattina, apro internet, e cerco novità sulla city.
Quanti locali hanno aperto oggi? Quale andremo a vedere? Dove porto il mio ragazzo quando viene a trovarmi?
Qui il mio umore cambia, constatando che mi trovo in un posto dove quello che cerco non lo troverò dentro un pub o dentro un giovedì sera. Il frastuono della gente, che il giovedì mi fa sentire a casa solo per qualche ora, e per qualche birra, invade il corso fino a farmi dimenticare come sono. Ma non basterà, lo so, perché il venerdì mattina è sempre un altro giorno, e L’Aquila ancora una volta è vuota. Sono abituata, ormai, a vivere situazioni altalenanti, ma in fondo, cosa pretendo? A chi dare la colpa di tutto ciò?
Sabato:Stanotte caro Moto, mi hai ricordato la freschezza del tuo frastuono nella mente, che in modo così veloce e intrinseco mi ricorda ogni volta tutto quello che mi hai fatto. E’ ancora notte, forse ti piace nasconderti nel buio, sai, io esco alla luce del sole e sono pronta a combatterti anche in mezzo al centro, di notte, sì, sono pronta. Cosa pensi che il giovedì o sabato sera quando mi
ritrovo per il corso alle 4 di mattina, senza nemmeno un lampione che mi faccia vedere, io abbia paura? Sbagli, mi hai abituato tu!
Ancora una volta mi sei venuto a trovare, come nelle fiabe, nuovamente, stavolta però non si parla di stelle. Forse sei simile ad un ragazzo che mi tira i sassolini da sotto la finestra per svegliarmi.
Peccato che io questa volta dormivo, ti piace prendermi alla sprovvista: mi sono sentita lacerata ancora una volta dal tuo immenso boato, come lo riconosco, sì, prima che tu ti faccia vedere sento il mio cuore che mi avverte, aumentando di battito, e mi dice che ti stai avvicinando. E di lì sensazioni che non vorrei riprovare, come l’incapacità di trovare una soluzione per il mio cuore che batte forte e i muri che vengono scossi come mi salutassero.
Ogni sensazione si tramuta in un articolo che descrive le mie paure con un numero: 2.3, 4.2, 4.8 e infine, 6.3, un numero che non dimenticherò facilmente.
Sai moto, a me fai ridere, noi siamo ancora qui, e ancora qui vedo ogni volta che mi affaccio alla finestra quell’albero che prima era davvero un albero, e che adesso mi sembra un bambino che mi guarda da lontano. Già, hai smontato, smussato, e tramutato cosi tanto le cose che dalla mia camera la sera quando mi affaccio, consapevole, non vedo più l’alberello dei vicini, ma un bambino che mi guarda.
So che quella è la mia paura, quello che tu vuoi farmi provare, ma sappi che ho imparato ad accettare i pensieri, quelli scaturiti dalla notte, e dalla paura che ho di te, e che purtroppo non va via.
Finalmente è giorno, apro gli occhi, ancora una volta posso constatare che il bambino che vedevo è il solito alberello nel giardino davanti a me, sempre lo stesso, ma alla luce del sole.