Sta lì dal sei aprile

23 febbraio 2015 | 16:07
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Sta lì dal sei aprile

di Valter Marcone

In attesa del 6 aprile 2015 voglio raccontare tre storie. Storie del silenzio. Perché voglio raccontare il silenzio come un oggetto, una visione lontana, una finestra chiusa o aperta, un fumo del camino sul tetto.

Tre storie del silenzio. Eccone i titoli: “Sta lì dal sei aprile“, “Quando conoscevamo solo il mammut“ e la terza “Non si vive di soli supermercati”.

Appunti di viaggio e domande per tre soste in un itinerario incombente o lieve, chiaro o cupo, dolce o amaro, libero. Comunque di natura libera.

Appunti di viaggio. Prima sosta.

”Sta lì dal sei aprile “

Ritrovarsi senza parole nella denotazione delle immagini. Potrebbe esserne il sottotitolo. Un sottotitolo che si confà probabilmente a tutte e tre le storie.

L’immagine è quella del cartellone del film “Gli amici del bar Margherita” di Pupi Avati nella bacheca del Cinema Massimo che, appunto, sta lì dal 6 aprile 2009.

“[i]Sta lì dal sei aprile[/i]“, mi sono sorpreso a pensare. Non è stato toccato, non è stato rimosso. Il terremoto l’ha incollato alla bacheca. Sta lì con due anime. Una lisa, rovinata, penzolante, colpita ormai a morte. L’altra nel suo iniziale splendore di immagini e scritte. Sta lì e guarda in faccia il silenzio della città abbandonata. E in quel silenzio così dirompente scopro molte cose. Mi metto dalla sua parte. Ho il suo sguardo.

Scrive Henry James “[i]L’esperienza non è mai limitata e non è mai completa: è una sensibilità immensa, una sorta di immensa ragnatela di sottilissimi fili di seta sospesa nella stanza della coscienza[/i]”. E con questi stessi fili di seta, quasi una ragnatela, sicuramente un setaccio della memoria, raccolgo ricordi e silenzi.

E penso come si collocano dentro di noi questi ricordi e questi silenzi.

Li abbiamo immaginati, inseguiti, catturati. Il silenzio di quel cartellone su quella strada. La strada delle parole imperfette. Le parole che non riusciamo più a sperimentare. E’ quella una strada, l’ultimo pezzo del corso, che nello struscio di una volta impone il ritorno indietro. Ai quattro cantoni o fino alla Fontana luminosa. Di lì, oltre c’è il vasto mondo. Un altro mondo. C’è il seguito della vita o l’inizio del lungo viaggio. C’è il raggiro della sorte che ha fatto il dentro fuori e il fuori dentro.

Dinamica di vita e di morte nella città e per la città. Di lì, poi, verso il basso monte, perché l’alto monte sta dalla parte opposta nel panorama della città, c’è un’altra città di [i]newtown[/i], di supermercati ad est e ad ovest, le rotatorie, le tangenziali, i pericoli “sgretolati e sregolati“ di un costruito, di un nominato, di un vissuto che erano una volta la città e che città non riescono ad essere di nuovo.

Ho con me un breviario che non saprei in altro modo chiamare. Un piccolo sillabario.

Un miracolo del silenzio. Un miracolo che potrebbe squadrare il nostro animo fattosi così informe. Un animo tentennante, ansioso, pieno di rimossi, afasico, colpito da un apoplettico botto.

Sospensioni, paure, trepidazioni, esitazioni, sottintesi e non detti, anacoluti ed eufemismi, inflessioni ed espressioni indirette.

Il mio breviario, il breviario del silenzio, surroga tutto questo. Lo ingloba e lo netta. Chiede di fare esperienze del suo lessico. Lo pulisce e ripulisce. Così vado subito, “[i]vedi alla voce solitudine[/i]“.

Solitudine: una delle sofferenze socialmente evitabili. Per questo Hume l’ha definita, ha definito la solitudine involontaria il peggiore supplizio per un essere umano. La condanna delle persone alla sorte della solitudine involontaria, come io la chiamo, è il semplice promemoria del male sociale o più precisamente della natura sociale del male che persone possono infliggere ad altre persone.

Solitudine come promemoria dello spopolamento della città, come esodo forzato, come anomia, abbandono. Fuori della città poteva significare ben altra cosa. Fuori la città c’è il suo territorio da riscoprire, da rivalutare in una nuova espressione dei quarti e delle locazioni.

E, dopo “solitudine”, chiede di fare esperienza nella città, nell’agenda della ricostruzione, nella programmazione del futuro e nella memoria del passato, un lessico civile che mette assieme poche parole.

“Libertà, tirannia, incompletezza, giustizia, democrazia, laicità, riformismo, tolleranza, rispetto, identità, speranza”. Un breviario quotidiano del bene e del male, ma non di tutto il bene e di tutto il male.

Al quale manca però una parola: verità.

Forse è meglio che manchi la verità, perché potrebbe sembrare enfatica. Anche se le verità, quelle scomode che solo i migliori filosofi, o i pazzi, o i bambini sanno dire, aleggiano nel cuore di tutte le parole che abbiamo sopra elencate.

Un sillabario, dunque, del silenzio: parole che vivono solo se nel loro cuore c’è verità. E verità ce n’è. Sillabario degno del migliore illuminismo. Un quadro di valori a disposizione di ogni cittadino che molte associazioni tentano di restituire alla società anche attraverso la democrazia partecipativa.

Giustizia e verità. Laicamente John Rawls scrive all’inizio del suo “[i]Una teoria della giustizia[/i]”: “[i]La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali così come la verità lo è dei sistemi di pensiero[/i]”.

Ma anche libertà che è la capacità, da parte delle istituzioni, di garantire a tutti di elaborare (in piena libertà appunto) un proprio progetto di vita.

Un breviario di parole che non tutti riescono a pronunciare perché non tutto si può dire, parimenti non tutto va detto, portato alla luce. Amarsi è accettare l’altro, non frugare l’altro nelle pieghe dell’essere. Vale anche per l’amore per la città? Accogliere l’implicito e l’ignoto è appunto una resistenza di inconoscibilità. Un limite alla trasparenza è il fondamento dell’identità. Noi siamo e non siamo dopo questa tragedia e il silenzio a volte è l’espressione di tutto questo. Il confine è dove ognuna di noi comincia. Le parole cominciano e finiscono nel silenzio. E poi ci sono parole che cominciano e finiscono prima; parole che cominciano presto e non finiscono mai.

Come la parola “speranza” che a volte si tramuta in “sopportare”, ossia perdere il filo del discorso e del ritorno: non sapere più dire il dolore muto.

Qual è l’ultima volta che siamo rimasti senza parole? E senza fiato? Sicuramente nel ricordo di una situazione inesprimibile.

Ecco perché le parole del silenzio servono a prendere fiato, al contrario del bel canto, in cui bisogna amministrare un respiro, un solo respiro per almeno sette battute. Prendere fiato. Tanto fiato.

Verità e giustizia, è per questo che il requisito di una società vera e giusta sta nella democrazia. Non esistono scorciatoie e panacee, né visioni capaci di rendere conto del nostro intero universo di valori se non sono stati costruiti nella democrazia.

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