
di Valter Marcone
Io vorrei chiamare le cose
con il loro nome.
Così un cane è un cane
e un dolore un dolore.
Perché almeno le cose
sono o non sono e faticano
a nascere diversamente. Occorre
scriverle perpetuamente per farle vivere.
Ma poi in queste poesie
osservo il mondo,
e, per esempio, L’Aquila
non è più L’Aquila,
il lavoro non è più lavoro,
la vita non è più vita.
La terra senza dolcezza d’alberi
che ogni giorno attraversiamo
è un miraggio o un’evidenza
e la ragione non sa ancora scegliere.
Sa solo di essere smarrita
e smarrita ne afferra il senso,
il senso di una terra devastata
da un evento appostato
ad una svolta dell’età.
Dell’età mia che sempre più
considera che forse
la mia ora, quando
s’insinua l’inquietudine
e penetra tra il dolore
e la gratitudine,
la mia ora non è passata
quella volta; rimane di essere stato là
dove le cose anche là
non sono state chiamate
con il loro nome.
[url”LEGGI LA PRESENTAZIONE”]http://ilcapoluogo.globalist.it/Secure/Detail_News_Display?ID=116009&typeb=0[/url]
[url”Torna al Network LeStanzeDellaPoesia”]http://ilcapoluogo.globalist.it/blogger/Valter%20Marcone%20-[/url]