L’Aquila, Budapest e Maria Assunta Accili

9 aprile 2015 | 07:13
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L’Aquila, Budapest e Maria Assunta Accili

di Raffaella De Nicola

Le scarpe, se le vedi da lontano, sembrano vere. Sono sulla riva del Danubio, fortemente impattanti, da donna, bambino, uomo, brutale memoriale in bronzo di corpi legati gli uni agli altri, obbligati a togliersi le scarpe prima di essere scaraventati nel fiume trascinandosi a catena. E’ l’ambasciatore italiano in Ungheria, Maria Assunta Accili, a parlarmi della decimazione degli ebrei ungheresi e della mappatura di Budapest, l’hotel Astoria, le case sicure, su un itinerario che l’italiano Giorgio Perlasca tracciò beffando l’Olocausto, fingendosi diplomatico spagnolo e salvando cinquemila ebrei ungheresi con l’istinto dell’“Uomo giusto fra le nazioni” nei terribili tre mesi, dall’aprile del 1944, che avviarono nei campi di sterminio 300 mila ebrei ungheresi.

Un rapporto di affetto quasi filiale, quello Italia-Ungheria, che avvolge la voce ferma, quasi fuori campo, del nostro Ambasciatore, mentre la Budapest di oggi snoda sotto i nostri passi una storia sociale non ancora libera dal senso di vittimismo di una politica dura. Bella, ordinata, regolare, l’atmosfera retrò, l’architettura elegante e imperiale, salvaguardata dagli stessi abitanti che la mantengono pulita, senza sfregi o graffiti, si presenta così questa capitale austroungarica che guardiamo con le luci della notte dalla villa dove dimora l’ambasciatore.

{{*ExtraImg_238657_ArtImgRight_300x399_}}La voce di Maria Assunta Accili corre sul filo di questo gelo sferzante, riapproda a L’Aquila, sulla discesa ghiacciata che faceva da bambina per andare alla scuola di San Bernardino. Lì vicino viveva in via S. Elisabetta con la sua famiglia e il padre, il senatore Accili, che tanto volle l’istituzione dell’ISEF nella nostra città. E’ un‘Aquila dalla politica d’oro, quella di cui mi parla, e che attraversò la sua formazione: TSA 1963, annoverato fra i grandi teatri, il Centro Studi Musicale di Nino Carloni e l’ISA, 1970, il Conservatorio A. Casella del 1967, sede separata del Santa Cecilia di Roma, l’Accademia delle Belle Arti 1969 con Carmelo Bene, Fabio Mauri, Mario Ceroli, il Museo Nazionale d’Abruzzo, arricchito con le opere della diocesi alla fine degli anni ’60 appena qualche anno dopo il fortunato ritrovamento del Mammuthus.

Lei passava sotto i portici, tranquilla come ora, andava al Liceo Classico, quello di una volta, la memoria puntata all’indietro, sul verde delle querce del Sirente del paese paterno, Acciano, dove periodicamente ancora torna, e lo sguardo sulla facoltà di Scienze politiche a Roma, lasciando L’Aquila a diciotto anni, master e corsi che avrebbero perfezionato la sua carriera diplomatica. Marocco, Pechino, Pakistan, Taiwan, Segretario Generale per l’Esposizione Universale di Shanghai. Altri lavori, incarichi, e, dal 2012, Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario d’Italia in Ungheria. «Una presenza italiana consistente: circa 2500 le imprese, ma i connazionali sono molti di più. Un’interazione felice fra i due paesi, sosteniamo i sistemi produttivi italiani per valorizzare la complementarietà, nonostante la recessione di entrambe le economie, lavorando all’architettura di un’unione contro l’euroscetticismo per uscire dalla crisi: il mercato unico è la chiave della crescita». Poi ritorna a L’Aquila, fa domande sullo stato attuale, ed i toni si annodano su una malinconia che non le permette di rientrare serenamente nella sua città, io mi tocco il rosone che ho al collo, è la prima cosa che ha visto di me, e ci avviciniamo in un tu che vuole le dia in questo incontro in cui il locale e il globale, piazza Duomo e Taipei, i quattro cantoni e Islamabad, il nostro Museo che ancora manca, i loro che valorizzano al massimo il patrimonio, i nostri ragazzi che camminano di notte fra le macerie, i loro che hanno locali e parchi e università e bus e metrò e bici fra le vie di una scacchiera austro ungarica, si mischiano nella visione di un mondo che non mi appare, ora, così estraneo e lontano, nella semplicità determinata con la quale l’ambasciatrice, voglio innalzarlo al femminile questa volta, si presenta e ci rappresenta nella sua solidità.

Una falsa staticità, la nostra, [i]immoti non troppo[/i], se ovunque sia andata ha incontrato aquilani, nucleo magmatico che si muove, insospettabile, lungo la crosta terrestre.

Siamo a fine serata, ormai. La saluto cordialmente, mentre esco, qui a Budapest, dalla elegante dimora che fronteggia Pest, dove mi sembra aver ritrovato una persona familiare. Fuori la bellezza del Parlamento sul fiume, dentro la torre di Piazza Palazzo sulla parete, legano geografie diverse sui fili di una memoria comune. Alla fine recupera, fra i suoi tanti ricordi, quello più caro, l’atmosfera struggente della processione del Venerdì Santo aquilano, con gli incensi che tagliano il freddo dell’aria notturna, come questo gelo che si posa su un Danubio, va verso la nuova Europa, sfugge come nebbia bianca e impalpabile, e ritorna qui, a L’Aquila, con l’odore delle litanie liturgiche, avvolge il rito santo di una processione, mentre una piccola comunità segue, in silenzio, il corpo di un Cristo morto in attesa di Resurrezione.