
di Roberta Mancini*
Quando parliamo di bambini uno dei concetti che può rivelarsi tra i più insidiosi è quello di mediazione. In molte delle sue forme più rappresentative, che siano esse di scambio col territorio o con la realtà materiale che lo circonda, ogni bambino ha tempo e modalità di adattamento che sono profondamente giustificabili.
Una delle forme che sempre, o quasi, rappresentano una problematica per genitori ed educatori è quella del possesso: mediare tra i bambini e gli oggetti che “appartengono” loro può risultare nella maggioranza dei casi una bega.
Eppure – in questo contesto ci limitiamo a trattare di oggetti in quanto parlare di possessività interpersonale o persino di gelosia richiederebbe un approfondimento più specifico – si tratta di uno stadio di relazione con l’esterno e con l’altro assolutamente naturale.
Uno dei maggiori interpreti della Psicologia dello sviluppo, Jean Piaget, ha disquisito enormemente sul tema dell’egocentrismo in età infantile, ossia su quella fase che, in un lasso di tempo che va dai 0 ai 6 anni circa, impedisce al bambino di sviluppare un’idea di realtà che sia altro da se e di percepire quindi la dissomiglianza concreta tra la propria visuale e quella degli altri. Difficile quindi, solo apparentemente impossibile, far comprendere ai bambini che ciò che è loro può essere condiviso senza il rischio di essere perso poiché il territorio entro cui essi stessi fanno risiedere i propri oggetti, i propri giochi o quant’altro, è fortemente circoscritto al proprio controllo.
Non bisogna preoccuparsi troppo; tornando al discorso precedente, tutto ciò è stato ampiamente affrontato e normalizzato dallo psicologo francese. La visione di Piaget, accreditata tra le più valide nonostante pareri contrari, assicura l’assoluta validità di questi comportamenti all’interno del processo cognitivo della prima infanzia, in quanto essendo il bambino molto piccolo e povero di informazioni che riguardano la realtà circostante, è portato a escludere la prospettiva di spartire il suo mondo privato con quello degli altri. Spesso mi è capitato di sentire come determinate condotte vengano etichettate come modi di fare che sono espressioni di cattiva educazione. No, non è sempre così.
La fase dell’è tutto mio è presto chiarita come un momento regolare dello sviluppo; certo essa genera, il più delle volte, forme più o meno tangibili di aggressività nel modo di relazionarsi tra i più piccoli.
L’esempio del genitore, anche in questo caso, è fondamentale all’acquisizione di nuove informazioni da parte del proprio figlio il quale anche grazie all’imitazione dell’adulto (che è uno dei principi-cardine dell’apprendimento, non dimentichiamolo mai) imparerà che si può dividere e scambiare tutto senza farne una tragedia! Anche la lode, come in tutte le situazioni di crescita, è altamente funzionale.
Il bambino che riesce a barattare i propri giochi, per esempio, va elogiato nella giusta ottica di un mutamento positivo dei propri atteggiamenti. E proprio all’interno di questo contesto spetta alle realtà educative di supporto (gli asili nido prima, le scuole dell’infanzia a seguire) tentare di sovvertire l’ordine naturale delle cose, in modo da attutire questo senso di prevalsa radicando il bambino il più possibile alla realtà sociale che lo circonda. Vale a dire mettere in pratica quell’opera di mediazione cui facevamo riferimento nelle prime righe.
*[i]Roberta Mancini {{*ExtraImg_221884_ArtImgRight_300x210_}}
ha 26 anni ed è stata un’esperta baby sitter. Aquilana doc, è un’educatrice infantile. Si è occupata di assistenza, tutela ed educazione di bambini dai 3 ai 36 mesi. Le principali attività svolte a supporto dei bambini sono state: di tipo grafico-pittoriche, attività manipolative e di tipo motorieHa conseguito il diploma di Liceo delle Scienze Sociali presso l’Istituto d’istruzione superiore ‘Domenico Cotugno’ di L’Aquila[/i].