
di Alfredo Vernacotola
Navigando tra le onde calme di una città priva di confini di contenimento, assistendo imperterrito a [i]show[/i] che non hanno eguali per quanto si definiscono (si pensi ad una protesta che pone la diffida ad una liberalizzazione che favorisce i cittadini) – da soli – grotteschi, da Argonauta amante del buon costume, soffermandomi su quanto accade a livello occupazionale nella città senza confini – di decenza -, ci accorgiamo di quanto i componenti della squadra partecipante alle varie sagre dove si svendono i migliori capi di bestiame hanno deciso di non preservare diritti di chi, da molti anni, svolge, professionalmente, il proprio lavoro.
Nelle altre contee della ridente regione, contornata da splendide montagne somiglianti alle Dolomiti, mal digerite dai componenti del team di glucchisti (neologismo coniato da Walter Chiari, amante della cultura, quella vera, non quella del dialetto, valido ma pur sempre chiuso nel suo stesso alveo, per delineare chi ama gettare le pietre nell’acqua, dolce e sensibile metafora di chi oggi detiene il potere e dice di essere oberato dal lavoro, tanto da avere tempo soltanto per mettere foto su face book – magari fossero belle!!!! -), l’importanza del pane quotidiano è stata affrontata a tal punto che i nuovi poveri, tutti noi che non abbiamo vitalizi e non abbiamo il dono di essere vestiti ogni giorno in giacca e cravatta e disquisire sul colore della camicia, mentre si decide chi deve – speriamo non sia rossonera – respirare o non, hanno ottenuto il riconoscimento di quel che la Costituzione garantisce: il mantenimento del posto di lavoro.
Ovviamente, nella città nemica di sé stessa, il problema è sempre causato dagli altri: ricordo che se la responsabilità fosse assunta da chi ha a cuore il bene del collettivo – non quello del Massolit – ogni situazione borderline vedrebbe soddisfatta la propria dimensione ‘patologica’, non la sete di arrivismo che avvince chi punta allo scranno, la dimensione psicologica di chi, di fronte allo sfaldamento delle proprie certezze, vede materializzarsi lo spettro del fallimento, concerne la volontà di rivalsa anche attraverso modalità di protesta eclatanti, se non addirittura autodistruttive e etero distruttive.
Non paghi del proprio onorario, i Cavalieri senza portafoglio – almeno per il popolo senza più mezzi di sussistenza – non per Lor medesimi che pur di arrivare al Castello venderebbero proprie preziosità – nel Club ove si dibatte dell’Arte del far niente, decidono chi possa o meno andare nella Dacia.
Si narra che ai tempi in cui regnava il Capo dei Capi, nonostante la sindrome d’accerchiamento acuta, questi ha deciso che una telefonata potesse allungare un vita: una telefonata per cercare una soluzione adeguata alla – giusta – ricollocazione – di individualità che hanno impostato progetti di vita intorno ad una sistemazione lavorativa che garantisce il sostentamento, da oltre un decennio, della famiglia e delle generazioni future, è la sola azione che l’uomo politico eticamente giusto dovrebbe fare: si, dovrebbe.
L’atavico problema del “paesuccio” disperso tra le Montagne risiede nella volontà di prevaricazione del più debole: il bene del popolo non è soltanto la rivoluzione; il bene del popolo è garantire il giusto ad ogni singolo cittadino che ha deciso di vivere in un Non–Luogo che si definisce attraverso l’azione priva di senso di chi corre dai più deboli quando c’è da riscuotere – elettoralmente parlando – e non quando la situazione è compromessa.
Si è udito, da più voci, che l’opinione pubblica all’interno delle istituzioni – non è un paradosso ciò che ho scritto: sempre nel Massolit si diceva che esistesse la democrazia; in realtà vi era un tacito accordo su chi andasse combattuto anche accarezzandolo – suole dibattere per accaparrarsi scranni, ove la Regina di Cuori – quant’ è bella la metafora disegnata dal grande scrittore inglese Sir Charles Lutwige Dodgson in arte Lewis Carroll in “Alice in Wonderland” ove tale maestà in realtà è una Grande Madre divorante – ha intenzione di divorare tutto quel che rimane, anche in prospettiva futura, poiché ogni piccolo pezzetto di platino vale l’annientamento del futuro, non del proprio – che un termine avrà – ma dell’altrui.
Ovviamente non è lecito far credere ai propri sudditi di essere così divorante verso la propria città: l’apparenza è tutto. L’Aquila è la Grande Madre divorante; L’Aquila è la bella addormentata nel bosco nelle mani di pifferai magici prestati alla distruzione del presente perché vengano precluse le aspettative di intere generazioni. Che senso nasconde la non richiesta di presa di responsabilità di Mercanti che si scoprono ricchi perché disponenti averi non di proprietà? Evidentemente il comportamento di chi non vede nel futuro altrui, il proprio, è teso al puro gozzovigliare.
Un interrogativo si pone innanzi al posto di mungitura non più disponibile: il Mezzadro posto a capo della Famiglia colonica è veramente al servizio dei suoi “commilitoni” o si serve del pronto intervento fatto di “moneta sonante” soltanto quando vi sono le aste all’incanto?
In questo affresco disarmante, i lavoratori del CUP della ASL hanno in seno dei minuscoli organismi che ledono gli stessi lavoratori, per reiterare il potere dei pochi.
Dove si vive se chi ha i diritti acquisiti vede dinanzi al suo futuro possibili nuovi sisma, frutto della sete di potere degli abitanti del Castello diroccato?
Concludo facendo il plauso a chi ha il senso del dovere e si pone in difesa dei più deboli. Un grande filosofo del passato – tedesco – Immanuel Kant – soleva dire “[i]Il dovere per il dovere[/i]”: non agire per avere un tornaconto che sia simil al riconoscimento immediato; agire per il dovere di ambizione pubblica, che sortisce il riconoscimento della Storia, non del ballo di fine anno.