
Una ragazza di 22 anni, Teresa Tuccillo, lancia un «appello disperato» per suo padre, Gennaro Tuccillo, 56 anni, «attualmente detenuto presso la casa di reclusione di Sulmona e gravemente malato».
Il padre, in fin di vita, vorrebbe poter lasciare questa vita tra le mura di casa ma il sistema non risponde e tra un rinvio e l’altro su rischia che la decisione del magistrato arrivi troppo tardi.
«Temo che mio padre morirà nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, ma anche curarlo. Perché mio padre è gravemente malato», racconta Teresa, spiegando anche le patologie da cui è affetto l’uomo.
«Mio padre non deve stare in carcere – spiega la ragazza – perché non può rimanervi ancora. Lo hanno detto i sanitari della casa di reclusione di Sulmona. Non sono praticabili adeguate cure presso la casa di reclusione e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, considerato che anche nella rete carceraria, con riferimento alle specifiche patologie, non esistono istituti caratterizzati dalle condizioni atte a rendere compatibile il regime detentivo con lo stato di salute di mio padre, ne ha disposto il trasferimento presso l’Ospedale civile di L’Aquila. Lo hanno detto i medici dell’ospedale civile di Sulmona, che non è in grado di assicurare la dovuta assistenza sanitaria. Lo hanno rappresentato i legali con istanze rivolte all’ufficio di Sorveglianza dell’Aquila di ricovero urgente presso strutture altamente specializzate, nonché con istanze di differimento pena con procedura d’urgenza e, poi, di sospensione della esecuzione della pena. Però, tutte le istanze difensive e tutti i solleciti per la decisione urgentissima rivolti all’ufficio di Sorveglianza dell’Aquila dopo oltre 10 giorni non sono stati ancora decise».
«La mancata decisione, nonostante i medici abbiano relazionato al magistrato di sorveglianza che mio padre è a rischio di morte improvvisa a breve termine e che è persino peggiorato. Mio padre, in questo momento, è condannato a morire. Tante volte, seguendo la cronaca – aggiunge la ragazza – in casi simili ho pensato: “se succedesse a me farei l’impossibile, protesterei, mi incatenerei”. Adesso che, invece, sono coinvolta io in prima persona, avverto forte il senso di impotenza, il senso di abbandono da parte delle istituzioni».
«Questo è un ulteriore tentativo – conclude la giovane – affinché sia consentito a mio padre di lasciare il carcere e di curarsi, alleviando i dolori di morte che lo affliggono. Spero che questo mio disperato appello venga raccolto. Voglio solo esprimere pacificamente il mio dolore per evitare che, in futuro, si verifichino altri casi del genere».