
di Giampaolo Ceci
Mi sono sempre chiesto come sia stato possibile che il cristianesimo si sia potuto diffondere in un mondo semi analfabeta come quello della Palestina dell’anno 0.
I principi dovevano essere necessariamente semplici e di facile comprensione; nessun maestro che spiegasse, nessun libro complicato da studiare.
La grande espansione del cristianesimo si spiega col fatto che veniva formulato un nuovo concetto del “bene” e del “male” che era facile da capire, ma nel contempo rivoluzionario e di grande attrattività per l’epoca.
Per i romani era “bene” tutto ciò che produceva benessere o utilità, di converso era “male” tutto ciò che lo limitava.
Jesus ha il merito (a prescindere da ogni valutazione religiosa) di aver diffuso un “nuovo” principio morale, “non fare agli altri ciò che non vorresti sia fatto a te”, che determinava un parametro semplice per capire se una cosa era o disdicevole o meno.
Forse con un esempio si capisce meglio: per un romano era bene fare una guerra di conquista perché così la guerra consentiva di depredare le ricchezze dei vinti; era bene perché consentiva di procurarsi degli schiavi e quindi evitava il pesante lavoro della cultura dei campi e così via. Il “Bene” si sintetizzava in “tutto ciò che mi conviene o che mi è utile per vivere meglio”.
Per un romano che si professava “cristiano” invece, fare una guerra di conquista non era più “bene”, come non era più “bene” procurarsi schiavi, perché nessuno avrebbe gradito essere conquistato o ridotto in schiavitù.
Una vera rivoluzione culturale che creava un taglio netto col passato. Una minaccia gravissima per Roma, perché minava uno dei capisaldi della sua “potenza” che si basava sulle conquiste e il depredamento sistematizzato delle ricchezze prodotte nelle provincie. Una politica aggressiva e spesso feroce che non a caso aveva consentito a Roma a conquistare uno dei più grandi e longevi imperi della storia dell’umanità.
Dopo Jesus la morale, per chi si professa “cristiano”, cambia di significato.
L’innovazione culturale si percepisce solo quando mettiamo a confronto la nostra cultura con quella di altri popoli che ancora oggi adottano la concezione degli antichi romani.
Ma il cristianesimo ha fatto di più. Ha imposto, come rifermento, non l’odio ma l’amore (inteso in senso lato) tra le genti: “Volgi l’altra guancia; ama il prossimo tuo come te stesso”.
Alle offese dei prepotenti s’imponeva di impegnarsi a comprendere le ragioni della sua ostilità, senza reagire, interrompendo in pratica la catena che porta ad alimentare ogni diverbio.
Non da ultimo un’altra considerazione motivava la grande diffusione del cristianesimo: la morale Cristiana non richiedeva un codice contenete le regole da seguire, ma si sintetizzava in “un principio” che consentiva a chiunque di capire da sè se ciò che stava facendo era giusto o sbagliato.
Questa nuova concezione del bene (sebbene già nota ai filosofi greci) doveva apparire rivoluzionaria per le popolazioni del tempo, oltre che di facile comprensione soprattutto per chi subiva perché occupava le posizioni sociali più basse.
Oggi si sta emergendo lentamente la convezione Romana della morale. Diciamo che in generale la morale “cristiana” si è un po’ persa tra dogmi e valutazioni articolate che allontanano dalla semplicità del messaggio originario.
Pochi si chiedono se ciò che stiamo facendo sia giusto o meno. Pochi si vergognano o si astengono dal fare ciò che più gli conviene, chi non ruba quando può, corre il rischio di essere tacciato da povero sprovveduto che non ha saputo approfittarsene. Fare ciò che comanda il potente di turno è meno impegnativo che fare ciò che non vorremmo sia fatto a noi. Raccomandazioni e ingiustizie ormai sono la regola, anzi vengono vantate!
Quando mi capita di recitare il pater noster, mi fermo sempre titubante su una frase: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. È vero, fa parte della litania imparata a memoria quando eravamo piccoli e ormai è una preghiera che si recita senza pensare al contenuto, ma se ci riflettiamo un po’, quale impegno stiamo prendendo con la nostra coscienza e con Dio (per chi ci crede)? Rimettiamo ai nostri debitori? “significa che ci impegniamo a perdonare i torti subiti?”
Mi sto impegnando a perdonare quel collega che mi ha offeso in pubblico, solo perché si deve volgere l’altra guancia”? O magari dovrei tentare di fargli capire che ha fatto male, perché, a parti invertite, anche lui non avrebbe gradito essere trattato allo steso modo? Mi sto impegnando a non comportarmi allo stesso modo? E’ questo l’impegno che sto prendendo?
Devo ammettere, dopo questa riflessione, che in un mondo dove la violenza, la furbizia e la capacità di sopraffazione l’appartenenza ad un gruppo di potere, sta diventando l’unico modo per avere successo, e la deriva etica dei nuovi “Romani” sembra avanzare incontrollata, comportarsi da “cristiano” senza dover ricorrere al principio di legalità (che anch’esso vacilla pericolosamente) come ultima “ancora di salvezza” è davvero un’ impresa difficile; tanto difficile, forse troppo….