Scritto sulle macerie. Cosa resterà, di loro

di Valter Marcone
“Sulle macerie (…) si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo”. (Marc Augè)
Scrive Tiziana Pasetti il 30 ottobre 2014 in L’Aquila tra macerie e rovine future : “Cosa ti può raccontare, una città che crolla sulla propria terra? Una città che crolla e che seppellisce morti, cosa promette?
Le macerie sono tomba, sono ricordo, sono tempio, sono inginocchiatoio. Sono una zavorra. Sono un problema politico. Sono comode, per molti. Hanno fatto ridere delle brave persone, quella notte. Cosa diventeranno? E quando? Cosa resterà, di loro, dopo? Ci saranno macerie che il passare del tempo – la Storia – trasformerà in rovine? E’, il nostro, un tempo che possa concedersi il lusso dell’attesa? Le rovine, l’arte che gode della storia tramandata, saranno ancora possibili?
Oggi, svegliarsi oggi e ritrovare la città del 5 aprile 2009. Come per magia. Ma senza eliminare questi (quasi) sei anni. La riconosceremmo? O i puntellamenti, i cantieri, le ferite ovunque, non sono diventate la nostra nuova città? Se chiudiamo gli occhi cos’è che “vediamo” subito, dentro di noi? L’Aquila com’era o L’Aquila com’è? Dov’è che viviamo? Nella realtà o nel rifiuto inconscio di essa? Vediamo davvero quello che ci circonda? Siamo maceria o rovina, noi che questa città l’abitiamo e che con questa città abbiamo vissuto la tragedia di quei secondi interminabili?
Dove sono nascoste, le nostre macerie? Chi le rimuoverà? E potranno mai diventare rovine? Ricordi? Potenzialità? Ricchezza? Quella che Walter Benjamin chiamava l’aura delle cose, ovvero l’apparizione di una lontananza in una vicinanza?
Letizia di Martino nei versi che seguono (la prima poesia fu pubblicata nell’immediatezza del sisma su Il Corriere della sera ) ci racconta proprio “ quell’entrata nel tempo “ che ci fa intravedere la vita che è sempre salvezza anche nella notte più nera ;la vita che è sempre speranza di salvezza anche se spesso è irriconoscibile il giorno nuovo; la vita per la quale non c’ è mai pianto perduto.
1.
Lo riconosco è colore del freddo
chi salverò chi penserò nei giorni
nelle attese nel respiro
quelle facce intatte
lo sbaglio della terra
il grido acceso
lungo – per la notte lunga.
2.
Sgombrata la polvere
lo spazio confondeva
le case della paura
quel separarsi in fretta
le mani sui capelli
non c’ è colore nel dolore
si cercava grattando l’ anima.
3.
Tolta la notte del pianto
trovi un fosso per dormire
ma il sonno non arriva
entri nel tempo
col corpo irriconoscibile
neanche la voce senti
è senza padroni
vuole restare senza storia
non sa che fare del silenzio
e credere è poca cosa, ormai.
4.
I corpi immobili
le pulsazioni infrangono il silenzio
ascolti il respiro
la natura è più forte di te
che gridi con la polvere in bocca.
5.
Poi salivi con il nome impresso
la nascita non valeva
la strada sbiancava
nessuna presenza
e la verità chiusa
rapire una parte del corpo
per chiudere con il giro della mano
con la lenta freddezza della mente
la terra si schiudeva
e avevi sapore di cenere.
6.
Contatto d’ erba con il corpo
cemento sulla pelle
era facile disperdersi
la luna era la stessa
nessun segreto svelato
morire è naturale.
7.
Il segno da seguire
la giornata strappata
è irriconoscibile questo giorno nuovo
no, non c’ è pianto perduto adesso.
8.
Non andrò via
nessuna corrente spingerà questo corpo
altri dimenticano
le mie mani no,
smosse sulla pietra
hanno finito di cercare
e poi il sussurro – lontano notte per notte –
restare soli nel vento
è presunzione la vita.
9.
Non ci sono
asciugo la fronte – ho il pieno dei pensieri –
dammi le mani
è aria quella che scorre
sul braccio sui capelli
del giorno neanche il ricordo
che so, un nonnulla.
10.
Nello spazio del suono l’ aria invecchia
il giorno pesa sul cielo
inchino il capo
l’ infrango con le dita
finisce la sera improvvisa
in fondo nel fondo di un cervello
di un grigio che sconosco
non vedo e poco sento
parliamo piano, ti prego
che finisca questa lunga domenica.
11.
Ti vedo se esisti se ti fermi
nel tempo muoio
colore che tinge per me
per la vita intravista
per la notte che gocciola
mi salvi
con la mano con la gola impastata
niente perdoni per i giorni che restano
quel che dici non sento
se il sonno arriva lento.
12.
Sarò come pelle ruvida
come sguardo scoperto
il collo eretto il passo veloce
come perdonare come sparire
il rosa del sorriso
mano aperta su di me.
13.
La voce chiama
è dentro nel dentro
lo sento il lamento
non penso, non più.
Letizia Dimartino è nata a Messina nel 1953 e vive a Ragusa, dove ha insegnato per molti anni. Ha pubblicato nel 2001 la sua prima raccolta di poesie, Verso un mare oscuro (Ibiskos), seguita nel 2003 da Differenze (Manni) e, nel 2007, da Oltre (Archilibri). Il suo ultimo libro, La voce chiama, è uscito nel 2010 per Archilibri. Sue poesie e recensioni sono apparse sulle riviste letterarie “Atelier”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Poesia”, “Almanacco del ramo d’oro”, “La Mosca di Milano”, “Le voci della Luna”, “Capoverso”. La silloge Cose, tratta da La voce chiama, è stata pubblicata sull’“Almanacco dello Specchio 2009” (Mondadori).
È presente in antologie (“Ibiskos 2002”, “Almanacco dello Specchio Mondadori 2009”).Le poesie qui pubblicate appartengono a “La voce chiama Abruzzo 2009.”