Li abbiamo lasciati soli

Foto Stefano Di Scipio
E’ un’ombra che intravedo con la coda dell’occhio, mi passa vicino e tutto si annerisce. E’ uno di loro, è un ragazzo rimasto solo, non riesco a guardarlo per debolezza, e mi domando, in questo passato che non è ancora passato, in quel mondo negato al presente, cosa non abbiamo fatto oltre che raccontare la sua famiglia e le storie rimaste lì, fissate , sotto le porte di case diventate macerie. Allora immagino di essere una di loro, di entrare in quel cono d’ombra che è anche questa città, indifferente o partecipe, sospesa fra dolore roco e diritti frantumati. Sono i familiari delle vittime del sisma, 309 pietre angolari, come lo furono quelle del 1703, e prima ancora e ancora prima, calce e sangue in queste mura che assemblano dolori antichi e nuovi, comunque nostri. E’ Vincenzo Vittorini ad urlare la solitudine, sono solo in cinque nell’aula del tribunale il 4 marzo scorso, e trema di indignazione quando rimandano a giugno il processo a Bertolaso che rischia la prescrizione. E’ l‘ombra di quel ragazzo su queste pietre, sono alla splendida Porta Tione ora, di fronte la glaciale indifferenza del Gran Sasso fendente come un bisturi, sullo scheletro di ombre e chiaroscuri, senso civico e comunità, che mi fa dubitare, con spietato sospetto, delle molecole di quanto si va ricomponendo, e questa città che guarda da un’altra parte, volta le spalle ad un passato spaventoso, nella rimozione per sopravvivenza, disinteresse, fragilità o rassegnazione. Ci sarà vera compartecipazione, fra poco sarà il settimo anniversario, selfie e foto fisseranno politici ed istituzioni dai verbosi discorsi messi in vetrina, la comunità sarà lì solidale. Ma la solitudine dei familiari e l’ombra di quel ragazzo che gira smarrito, accanto alle nostre vite, si muoveranno in una architettura del dolore senza il pilastro portante di una cultura associativa, quella che difende una storia comune ad ogni costo e ogni giorno. Assenza che indebolisce i palpiti di una città non sempre compatta, unita e fragorosa nelle carriole sbilenche di macerie fatte rimettere in cantina, uscita dai propri orticelli negli anni ’70 per il capoluogo, dispersa nelle votazioni di rappresentanti aquilani alle regionali, sparpagliata nel divide et impera delle new town, commossa nel corteo del 6 aprile, non solidale negli affitti esosi, legata ai luoghi e meno alle persone, insufficiente nella difesa delle 309 vittime e dei loro familiari , assente di noi e per noi nei grandi rischi, in un perimetro urbano a matrioska, più strati nel voler dimenticare e ricordare, più vite in una stessa vita, più tempi in un unico tempo, e alla fine le loro storie, li abbiamo lasciati soli, come l’ombra di quel ragazzo che vive al di fuori degli altri, nel tempo delle sue perdite, dei suoi lutti e del suo fragile smarrimento, uno come noi, uno di noi, come un uomo, come un Cristo, che si è fermato a L’Aquila, e non è andato ad Eboli.
Vincenzo Vittorini, Pier Paolo Visione, Maurizio Cora e Massimo Cinque invitano tutti mercoledì 30 marzo, ore 17, davanti l’Auditorium Piano al parco del Castello, per richiamare l’attenzione sulla “strage dell’Aquila del 6 aprile 2009”.