La ricerca della ragione o della verità

Sono trascorsi ben sette anni dal momento in cui il sisma dell’aprile 2009 distrusse la città, provocando 309 vittime e lasciando nell’angoscia e nella disperazione i sopravvissuti. Fin dal primo momento gli aquilani si interrogarono sulle probabilità di salvezza dei deceduti, o sulla possibilità di una consistente riduzione dei morti. Quesiti posti silenziosamente alla propria coscienza. Manifestati civilmente a gran voce nei luoghi deputati alla gestione della sicurezza pubblica, della giustizia, dell’amministrazione politica e sociale del Paese. Silenzio assoluto. Peggio di quello che si riscontra nei quartieri, nelle piazze, nelle strade e nei vicoli del centro storico, abbandonato e posto a disposizione dei saccheggiatori, che hanno portato via ogni cosa, ricordi e perfino i portoncini d’ingresso delle abitazioni. Ancora oggi, un manipolo di uomini, toccati e segnati negli affetti più cari, si battono con coraggio e abnegazione, non tanto per inseguire una qualsiasi forma di giustizia, purtroppo irraggiungibile, quanto per cercare di capire le ragioni che spinsero diverse persone ad assumere, con estrema disinvoltura, una posizione rassicurante assai discutibile. Chi è stato privato degli affetti essenziali, che costituiscono la ragione di vita, tende a perseguire la ricerca della verità, non per vendetta o sete di giustizia. Solamente per cercare di rendersi conto dell’andamento reale dei fatti. In ultima analisi, anche per dovere verso la memoria di chi è tragicamente scomparso sotto gli occhi di parenti e amici. È un dolore incancellabile. Una ferita che resta perennemente aperta nel cuore e nella memoria di ciascuno di noi, provocando uno stato di malessere ogni volta che la mente corre alla ricerca di ricordi, di sorrisi, di affetti, perduti per sempre.
Abbiamo assistito a un deprecabile scarico di responsabilità tra i vari organismi preposti alla tutela della pubblica incolumità. Una Commissione grandi Rischi che dribbla tutti e chiama in causa la Protezione Civile, in quanto ritiene che ruoli e funzioni in materia spettino ad essa. In tutta questa caotica faccenda i cittadini aquilani non riescono più a trovare il bandolo della matassa. Confidano nell’operato della Magistratura locale. Con coraggio e, diciamolo pure, con molta fatica i Magistrati aquilani hanno dovuto resistere alle pressioni di coloro che tentavano di scindere le responsabilità degli uomini. Venne fuori la teoria della imprevedibilità dei terremoti. Qualcuno urlò che si stava sottoponendo a giudizio la scienza. Pura e pericolosa fantasia. Mai nessuno ha cercato di rinviare a giudizio la scienza, semmai quegli uomini che gestiscono la materia. Nessuno ha chiesto alla Commissione Grandi Rischi di scrutare e leggere l’imponderabile. Nessuno ha detto che la scienza o gli scienziati siano apparsi carenti nell’esercitare i rispettivi ruoli. Se questa Commissione esiste, hanno affermato i cittadini, dovrà pur svolgere qualche piccolo ruolo o compito. Se, invece, essa si limita a una rilevazione statistica degli eventi sismici, forse, sarebbe il caso di rivedere tutta la materia, perché di Enti che fanno statistiche nel nostro Paese ve ne sono in abbondanza. L’elemento che la Magistratura ha tenuto in evidenza nella conduzione delle indagini è costituito dalla inconfutabile riunione tenuta dalla stessa Commissione a L’Aquila su espressa richiesta dell’Amministrazione Comunale. I componenti della Commissione si sono scomodati dalla sede romana per venire a verificare sul territorio la frequenza e l’intensità delle scosse sismiche? Non lo crediamo. Sono venuti per cercare di dare qualche indicazione scientifica alla popolazione, fornendo assicurazioni su eventuali ripetizioni dei movimenti tellurici e sulla intensità degli stessi. Sarebbe bastata una semplice affermazione: “la prudenza non è mai troppa, soprattutto in considerazione della sismicità della zona”. Poi, ognuno avrebbe operato le proprie scelte. Tutto questo non si è verificato ed ecco perché gli aquilani si sentono amareggiati e turlupinati.
La sentenza di condanna di primo grado della intera Commissione non aveva reso giustizia alle ignare vittime del terremoto. Aveva lenito in parte il dolore dei superstiti che ritenevano di aver reso un dovuto servizio ai caduti del terremoto. La comunità aquilana non aveva abbassato la guardia. Seguiva con attenzione l’evoluzione del ricorso in Appello. Riteneva che la Corte avrebbe dovuto confermare la sentenza di primo grado. Invece, verdetto assurdo e del tutto antitetico. Con un solo concetto, molto discutibile per la verità, è stato ribaltato il giudizio, tornando alla sola tesi della imprevedibilità del fenomeno, che nessuno dei sopravvissuti ha mai posto in discussione. L’ultima doccia fredda, quella più deludente, è arrivata dalla Cassazione. Conferma della sentenza d’Appello. Lo Stato ha cercato di salvarsi in ogni modo, esercitando tutti i poteri civili, legali e politici per uscire dal giudizio penale con le mani pulite. Così non è! Infatti, la condanna del solo Vice Presidente della Protezione Civile pone in evidenza la evanescenza della vertenza. Lascia aperta la porta ad ogni e qualsiasi considerazione. Prima di tutto lascia intendere che è stato scelto a bella posta un solo capro espiatorio per salvare Grandi Rischi e Protezione Civile, espressioni dello Stato. De Bernardinis, in quella circostanza, nelle vesti di Vice Presidente della Protezione Civile, non poteva esercitare, tra l’altro, alcun ruolo istituzionale perché il Presidente non era all’estero, non era malato, non era neppure dimissionario e non aveva neppure delegato De Bernardinis a parlare per suo conto. Se si doveva effettuare una scelta oculata, i condannabili andavano individuati nella Commissione Grandi Rischi e nella Presidenza in carica della Protezione Civile. Questo è il fatto che gli aquilani non riescono a comprendere. Perché tanto protezionismo intorno a certi rappresentanti delle Istituzioni statali? I superstiti non intendono arrendersi, soprattutto perché essi sanno che la ricerca della verità è un dovere e non una fissazione, come molti vorrebbero dare ad intendere. Ci auguriamo che la Corte Europea sappia riportare nella giusta ottica l’intera vicenda, rendendo giustizia, con assoluta trasparenza, ai caduti che hanno affidato ai sopravvissuti l’incarico di tutelare la dignità della loro memoria.
Al termine di questo infinito processo, forse, sarebbe necessario apportare almeno una modifica a una delle nostre storiche tradizioni. Alla fine dell’800 l’antico orologio, quello della Torre di Piazza Palazzo, citato anche da Buccio da Ranallo, fu sostituito in quanto non più funzionante. I rintocchi dell’orologio nel ‘300 segnavano le ore e i 99 rintocchi per ricordare i castelli fondatori. I rintocchi davano inoltre il segnale per la chiusura delle porte cittadine e delle taverne oltre che per l’inizio del coprifuoco, cioè l’ora in cui i cittadini non forniti di fiaccola o di lume, dovevano rientrare nelle case. I rintocchi dovrebbero diventare 309 e, perché no, anche 310. L’ultimo dedicato a De Bernardinis, martire delle pressioni statali.