
Sono passati 72 anni dall’eccidio di Filetto, uno degli episodi più drammatici della lotta per la liberazione del nostro paese. Diciassette vittime, di cui sedici civili, uccisi per rappresaglia dai nazisti dopo un’azione dei partigiani contro il presidio militare tedesco presente a Filetto. Alle 11 di oggi la deposizione della corona da parte del sindaco Massimo Cialente in ricordo delle vittime di quel 7 giugno.
Una strage che anticipa di pochi giorni quella di Onna, altra pagina dolorosissima della storia del 900 sul nostro territorio. “La memoria di questi drammatici episodi, oltre a rappresentare un commosso omaggio alle vittime, deve essere perpetuata a testimonianza di quale prezzo sia stato pagato per la libertà del nostro Paese” commenta il sindaco Cialente.
Queste le vittime: Giovanni Gambacurta (1912), Agostino Spezza (1900), Gradito Alloggia (1904), Sabatino Riccitelli (1896), Cesidio Altobelli (1903), Tito Marcocci (1924), Loreto Cialone (1887), Mario Marcocci (1927), Luigi Marcocci (1914), Pasquale Cialone (1900), Domenico Marcocci (1908), Raimondo Ciampa (1902), Clemente Ciampa (1905), Antonio Celestini (1920), Carlo Marcocci (1894), Antonio Palumbo (1879)e Ferdinando Meco (1883)
LA STORIA
Nella zona di Filetto operava la banda partigiana “Di Vincenzo”.
Nel paese, durante l’occupazione tedesca, c’erano una piccola stazione radio e telefonica, un’infermeria e
un magazzino viveri.
Il 7 giugno 1944 intorno alle 16.30 una decina di partigiani provenienti da monte Archetto assalì i soldati
che stavano caricando il materiale radio in vista del trasferimento a Paganica, data l’imminente ritirata
delle truppe dalla zona. Il commando partigiano era guidato dal comandante Aldo Rasero, e comprendeva
alcuni nomi noti come Gilberto Fioredonati, Armando Capannolo, Francesco Sgro, Luigi e Tito Marcocci,
Mariano Morelli e Pasquale De Simone. Il gruppo era stato chiamato a Filetto dal giovane romano Angelo
Cupillari che aveva recato anche un appello sottoscritto da altri abitanti al fine di scongiurare una razzia
tedesca.
I Tedeschi non vennero colti alla sprovvista: si allertarono infatti sentendo le grida di alcune donne. Gli abitanti volevano evitare, infatti, che un’azione sanguinosa venisse compiuta proprio mentre i tedeschi stavano andando via, esponendo peraltro i civili a dure e tardive rappresaglie.
E purtroppo, andò proprio così: i Tedeschi prima diedero l’allarme ai commilitoni di stanza a Paganica e poi si
asserragliarono a palazzo Facchinei, nel centro del paese, dove ingaggiarono un conflitto a fuoco con i partigiani, che si concluse con la morte di un tedesco e il ferimento di un altro soldato e di tre partigiani.
Dopo lo scontro, mentre i partigiani si ritiravano, sopraggiunse una colonna corazzata di soldati tedeschi e diversi abitanti di Filetto si davano alla macchia, scongiurando così un eccidio di ancor più grandi dimensioni.
La prima vittima civile fu Ferdinando Meco, ucciso mentre attingeva acqua ad una fonte; stessa sorte per Antonio Palumbo, proprietario terriero che era sfollato in paese ed era in buoni rapporti con il maresciallo maggiore Schafer. Alla vista del cadavere lo Schafer si sarebbe scagliato contro un commilitone accusandolo di omicidio gratuito: per tutta risposta il tedesco gli avrebbe sparato a bruciapelo uccidendolo.
Il diciassettenne Mario Marcocci venne incaricato di portare su un camion il cadavere di Schafer e fu
successivamente ucciso: fu la vittima più giovane.
Da L’Aquila il maggiore generale Hans Boelsen, comandante dal 1° giugno della 114^ Jagerdivision, ordinò al capitano Matthias Defregger (29 anni), comandante del battaglione trasmissioni di stanza a Paganica, di eseguire la rappresaglia.
Il Defregger si recò quindi a Filetto dove era stato catturato un gruppo di una trentina di maschi, tra cui alcuni minori, in seguito rilasciati. A notte alta, presso la casa Zinobile in località Cesa a poche centinaia di metri dal paese, i rastrellati vennero posti su tre file ed avvenne l’esecuzione con mitragliatrici.
Una decina di prigionieri delle ultime file riuscì a salvarsi o gettandosi nelle radure retrostanti o buttandosi ai piedi di soldati implorando la grazia e di fatto impedendo loro di sparare oppure fingendosi morti. Con la prima scarica vi furono dieci caduti. Durante la notte iniziò una caccia all’uomo che portò alla cattura e all’uccisione di altre cinque persone. Le salme delle prime dieci vittime vennero raccolte in casa Zinobile, quelle delle altre cinque nella casa Massari: entrambe le abitazioni furono poi date alle fiamme.
Alla rappresaglia avrebbero partecipato anche italiani (fascisti o militi in uniforme tedesca). Il paese fu quindi dato alle fiamme e depredato. Donne e bambini tornarono a quel che era rimasto del loro paese e delle loro case solo dopo due giorni.
Il nome di Defregger tornò alla ribalta nel 1969, in seguito ad un articolo pubblicato su Der Spiegel. Defregger dopo i fatti di Filetto venne promosso al grado di maggiore e nel dopoguerra non venne sottoposto ad alcun giudizio da parte dei tribunali alleati. Completò gli studi universitari in filosofia e teologia e venne consacrato prete nel 1949, nominato vescovo nel 1968. Nel 1969, per iniziativa del deputato comunista aquilano Eude Cicerone, il caso-Defregger fu riaperto presso la Procura della Repubblica dell’Aquila. Ma il vescovo fu assolto in istruttoria (e mai estradato in Italia) nel 1970 dal procuratore generale di Francoforte per aver solo obbedito agli ordini dei superiori: il reato di concorso in omicidio, infatti, era caduto in prescrizione 25 anni dopo quel 7 giugno 1944.