Amatrice, diario tra le macerie

di Francesca MarchiIn viaggio. L’asfalto corre veloce come i pensieri. Stessa emozione, stesso tremore, stesse scene. Sette anni dopo ritornano alla mente le immagini del terremoto dell’Aquila.
Il verde della Salaria è rassicurante e nasconde le macerie. Posto di blocco per tutti, tranne che per i soccorsi, volontari e non, che in questa giornata e per le altre a venire scaveranno tra le macerie. Il rettilineo è pieno di auto, in prossimità del bivio che si divide: da un lato Amatrice, dall’altro Ascoli Piceno, comuni che con le loro piccole frazioni sono stati segnati dallo stesso destino.Una navetta ad attendere la stampa. Siamo in tanti. Non importa, posti in piedi stretti tra le macchine fotografiche e videocamere. Lingue diverse si sovrappongono: la stampa straniera è in prima fila insieme a quella italiana. La fermata arriva in fretta, scendiamo, ma c’è da camminare. Ed ecco che dopo la curva qualcosa comincia a vedersi. L’Ospedale Grifoni inagibile, completamente. Ne danno conferma le tende blu che ricreano un mini presidio ospedaliero proprio accanto all’edificio. Ancora un po’ di salita ed ecco Amatrice. Il Convento e i suoi resti, il muretto cadente che lo cinge tutt’intorno fa da limite ‘immaginario’ ai giornalisti e alle dirette tv. I Vigili del Fuoco intanto buttano giù ciò che a breve potrebbe crollare. Ci sono le scosse, continue. Le senti sotto i piedi. Stanno recintando la zona. Non si può entrare sulla via che porta dritti a Corso Umberto. “E’ pericoloso, ci sono crolli”– ripetono Vigili e Protezione Civile. Sono attimi concitati quelli che seguono la prima notte e poi la seconda, quando la speranza di trovare vite sommerse da macerie e polvere svanisce. Dietro di me un cumulo di polvere e sassi. “C’è una persona qui sotto. Era una casa a due piani” – mi dice un uomo dei soccorsi. “Non possiamo ancora intervenire. Ci sono edifici pericolosi, implosi, accartociati”. Torniamo alla ‘base’, vogliamo raggiungere l’altro lato di Amatrice. Ma a piedi non si può attraversare la città. Lo facciamo insieme ai ragazzi del comune di Rieti che portano cibo, acqua e vestiti ai fratelli amatriciani. Saliamo su uno dei ‘pulmini della solidarietà’. Un quarto d’ora di viaggio per scoprire l’altro lato della città distrutta.
C’è molto movimento, questa la sede della macchina organizzativa. Il cuore del coordinamento. Uomini e divise giunti da ogni dove, cani e mezzi. I volti e gli occhi di chi ha vinto la morte salvando una vita, e quelli di chi è stato sconfitto. Nel cortile della casa di riposo Don Minozzi c’è un via vai frenetico. L’obitorio, allestito di fronte ai resti di un edificio. Silenzio, lacrime e storie. Si sta in fila e si attende il proprio turno per il riconoscimento delle salme. “Ho perso tutto”. “Mio figlio non ce l’ha fatta”. E così avanti all’infinito, parole disperate e composte, impotenza davanti al dolore più grande. “Io sono qui, ma Alessandra è lì sotto”, e gli occhi che fissano il vuoto. Il dolore che si amplifica minuto dopo minuto.
A pochi passi da qui la macchina della Croce Rossa che lavora. Le divise rosse si preparano per distribuire i pasti, sono quasi le 13. Il magazzino dei vestiti è sommerso da scarichi continui.
Incontro volti familiari. I Vigili del Fuoco e gli uomini della Forestale dell’Aquila. Pierpaolo Pietrucci, Giovanni Lolli e Stefania Pezzopane. Silenzio e strette di mano. Non c’è molto da dire.
La strada dritta ci porta verso il centro. Di nuovo, ma questa è un’altra angolazione. Ed ecco ancora l’orizzonte fatto di macerie. La torre che resta in piedi su Corso Umberto. E ancora più avanti la scuola, sbriciolata.
Tra i simboli del terremoto la quotidianità: le case con le porte spalancate, i panni stesi, i fiori colorati alle finestre, i manifesti di una festa di paese che non ci sarà mai.
Ecco un parco giochi. Le altalene, le casette con gli scivoli e i bambini che giocano: il solo angolo di normalità in una città che non c’è più. Questa è Amatrice oggi.