Il lupo, l’aquila e il bambino

di Fulgenzio Ciccozzi
Voglio raccontarvi di una vicenda accaduta non molto tempo fa, in una terra che stava perdendo il suo andare antico, dove un bambino e un lupo s’incontrarono in una sincronica sincronia di emozioni. La grande guerra era finita da più di un decennio. Un freddo inverno, agli inizi di febbraio, in un altopiano delle plaghe aquilane, il sole, al tramonto, accarezzava le cime delle alpi Sabine e le creste dei monti Vestini. La neve, scesa copiosa su quelle contrade, aveva tinto di bianco la vallata. Spumeggianti anelli di fumo si elevavano dai comignoli delle case in pietra che costituivano il piccolo borgo; un paese come tanti del nostro Appennino abruzzese.
All’interno di una di esse, una luce fioca illuminava la finestra che dava verso l’aia dell’abitato. Un bimbo roteava la mano sull’umida superficie del vetro appannato dal vapore dell’acqua che usciva copioso da un recipiente; questo adagiato sulle fiamme del fuoco, mentre, scoppiettanti, ardevano un nodoso pezzo di legno. Il piccolo tronco pian piano spariva nero e rossiccio nel guscio del camino. Il fanciullo si era creato uno spazio in cui immergere la sua curiosità, per perdersi, con l’immaginazione, in quello scorcio di paesaggio montano, che per lui, in quel momento, era la porta d’ingresso nel suo mondo chimerico. Mentre vagava con la mente, attendeva il ritorno del papà dalla bicocca, posta in un vicolo poco distante, di fronte ad un arco. Era andato a rifocillare il vitellino nato pochi giorni prima.
Lo sguardo si perdeva lungo il selciato dei vicoli dal colore cenerino, che emergeva solo dagli stretti corridoi tracciati dagli uomini per rendere percorribili quei nodosi viottoli imbiancati. Nemmeno un brusio, ma solo il silenzio riempiva quei freddi spazi circondati da austere mura, qua e là adorne di rossi mattoni, di vivide pietre e di imposte malamente socchiuse. Gli usci spruzzati, all’esterno, dal nevischio, arginavano quell’aspro clima che bussava impietoso alle porte di quei miti focolari domestici. In alto, dalle gronde dei tetti, aguzze formazioni di ghiaccio pendevano minacciose sulle stradine innevate. Il piccolo fontanile, che fiancheggiava una pieve, gorgogliava faticosamente un esiguo quantitativo di acqua, mitigato, nel getto, dal freddo mordace. Mentre una leggera brezza muoveva la neve facendogli compiere dei piccoli mulinelli, d’un tratto, una figura sempre più chiara apparve, ormai all’imbrunire, nell’aia del paese, avvicinandosi, con passo trotterellante, verso la sua confortevole postazione. Poi si fermò e, con uno sguardo attento, penetrante, si stagliò, d’un tratto, all’ingresso del vicolo che conduceva all’interno del villaggio.
Il pelo grigiastro, gli occhi giallognoli, le orecchie aguzze e le zampe ben piantate sul bianco terreno non lasciavano dubbi: era un lupo. Il signore di questi monti blandiva quelle imbiancate dimore. Lo distingueva una piccola chiazza bianca a forma di luna posta agli estremi della sua breve coda. E sì che suo nonno gli parlava spesso di incontri con questo animale, ma adesso, vederlo così da vicino, era per lui tutt’altra cosa. Il fanciullo pensò che quell’animale avesse fame. Incurante del pericolo, quatto, quatto si recò nella dispensa e prelevò un bel tozzo di pane. Senza farsi notare dalla mamma, affaccendata nei lavori domestici, e dalla sorellina, guadagnò l’uscita e, temerario, andò incontro al lupo. L’animale, guardingo, fece per allontanarsi, ma il bimbo richiamatolo con un piccolo urlo gli gettò quanto aveva, di nascosto, rubato. Il lupo lesto, spinto dalla fame, si girò, afferrò l’inatteso boccone e si allontanò perdendosi nella vicina campagna. La scena si ripeté anche nei giorni successivi. Questi incontri vennero taciuti ai suoi familiari; dopotutto si trattava pur sempre di un lupo! Il bambino non riusciva a capire come mai quel bigio animale non si allontana mai da quei luoghi, essendo per natura una creatura raminga. La risposta a questa domanda gli sarebbe giunta di lì a poco. Dopo i primi incontri, il fiero animale cominciò ad avere fiducia di quell’inatteso amico trovato e, un giorno, si lasciò seguire. Dopo aver percorso poco più di un miglio, tra rovi, boscaglia e terreni incolti, finalmente, giunsero nel suo momentaneo ricovero. Ecco spuntare dall’angolo di una dolina un lupacchiotto leggermente claudicante; accanto, al frugante e vigoroso cucciolo, la sua fiera madre. Il fanciullo, tosto, immaginò che il selvatico piccolo fosse scivolato nel tratto scosceso di quella cavità carsica, ma, rotolatosi, rimase ferito e impossibilitato a risalire, se non dopo essere guarito. I residui segni nel suo corpicino lo confermavano. Nonostante ciò, si ciondolava tra i cespugli, giocoso, e provava a saltare sulle inermi lucertole che si affacciavano guardinghe sui ciottoli di pietra riscaldati dal sole, per poi intrufolarsi e sparire tra l’ingarbugliata vegetazione. Non sapeva che quello, per lui, piccolo monello dal cuore d’oro, era l’ultimo incontro con il suo amico lupo.

Giunse la primavera. I mandorli tornarono a tinteggiare di rosa l’ameno pianoro, animato dal cinguettio degli uccelli. Sul cofano di una macchina bianca, steso, imbruttito dal sangue, il corpo privo di vita di un lupo. Quella chiazza sulla coda non lasciava alcun dubbio, era il suo amico lupo, ucciso, depredato della sua vita per una lotta che non sa più di esistere, vittima e capro espiatorio di un’esistenza che adesso non è più. Il ragazzo, viso ceruleo, pensò che la dea italica, Diana, dall’alto della sua immortalità, non avesse fatto una buona veglia. Ebbe appena il tempo di guardare un uomo dall’aspetto rubicondo e con la barba un po’ canuta, che, sceso dalla vettura, si destreggiava tra i curiosi e mostrava la nera doppietta, con i plumbei percussori a riposo, dietro la culatta. Subito voltatosi, il giovinetto guadagnò l’uscita del paese. Prese, con passo lesto, a percorrere il vicino sentiero che lo introduceva nell’aperta campagna. Non c’è dubbio, quella triste scena lo gravò di oscuri pensieri. Dopotutto, lui aveva del cacciatore un’immagine ben definita: un uomo baffuto di verde vestito, con neri scarponi, panciotto brunito, berretto inclinato sul capo, al più, con una lepre, come trofeo, aggarrettata, penzolare da una cinta, in cui dardeggiavano colorite cartucce; un gran chiacchierone. Di corsa raggiunse, con cuore trepidante, mentre tristi immagini si rincorrevano nella sua mente, l’agognato rifugio. Ebbe il tempo di veder perdersi all’orizzonte la lupa, mentre si allontanava con il suo piccolo. Scacciati come forestieri dalla loro terra. Non un cenno, non un saluto, ma via, fino a scomparire in quei monti, a nascondersi in quelle selve; lontani dall’uomo.
Intanto, un’aquila si stagliava in alto nell’aria. Un mondo, quel mondo stava volando via. Non sapeva, quel giovane “ometto”, che quella era l’ultima volta che vedeva librarsi in quel cielo terso, e nidificare sulle pareti di quegli scoscesi pendii, la regina dei cieli. Ora il fanciullo, che non è più fanciullo, è qui, un po’ in là negli anni, seduto su uno stallo di pietra, all’angolo di un muretto, sotto l’ombra di un vicino mandorlo a raccontare la sua storia; ma qualcosa è cambiato. Il lupo è tornato, solitario, fuggevole, ad attraversare i suoi monti, le sue valli, ad abbeverarsi negli argentei ruscelli, a nutrirsi di bacche, di animali di cui è pieno il bosco. L’aquila, in tutta la sua bellezza e maestosità, l’attende ancora, con pazienza e amore, ma sa, in cuor suo, che morirà solo dopo averla di nuovo vista volare sulle sommità azzurre, tra i monti Vestini e le alpi Sabine, così come è sempre stato, dalla notte dei tempi.