Cardinale Petrocchi, con la solidarietà si può vincere la sfida del terremoto

6 aprile 2019 | 09:27
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Il Cardinale Giuseppe Petrocchi affida a Il Capoluogo il calore della Fede nell’intervista con il direttore Roberta Galeotti.
“La solidarietà è la massima espressione dell’amore cristiano”.

Il Cardinale Giuseppe Petrocchi affida a Il Capoluogo il calore della Fede nell’intervista con il direttore Roberta Galeotti.

“La solidarietà è la massima espressione dell’amore cristiano”.

A dieci anni dal terremoto, le parole del Cardinale Petrocchi sono foriere di necessaria speranza.

«Per la decima volta, quest’anno, sentiremo i rintocchi della campana che ricordano i 309 “martiri” del terremoto.

Facciamo memoria di tutte le vittime di quella immane tragedia; le stringiamo a noi con un unico abbraccio e, al tempo stesso, le chiamiamo per nome: una ad una.

La “notte crocifissa” del sisma ha suscitato lunghi giorni di dolore, ma anche ha acceso la luce di una graduale “risurrezione”, più forte della furia devastante del sisma. Le lacrime versate si sono rivelate feconde, ed hanno generato una abbondante fioritura di fraternità e solidarietà.»

I sussulti geologici, che hanno fatto violentemente tremare il nostro territorio, non solo hanno demolito case e cose, ma hanno attivato anche “sciami problematici” profondi, che si sono propagati nella mente, nei sentimenti e nelle relazioni della nostra popolazione, producendo fratture e lasciando rovine: “nelle” e “tra” le persone.

E queste “faglie” interiori, che caratterizzano il terremoto “dentro”, sono più dannose e durano più a lungo delle “onde” sismiche che determinano il “terremoto “fuori”.

“La realtà comunitaria è abitata dalla presenza del risorto”

Ascoltando la gente, si coglie un dolore che ha bisogno, anzitutto, di essere captato, accolto e condiviso. Ho notato che tanti hanno una comprensibile ritrosia a raccontare ciò che portano negli angoli più remoti dell’anima: anzi, loro stessi hanno difficoltà ad entrare nei “ripostigli” psichici in cui hanno cumulato – e chiuso a chiave – emozioni sconvolgenti e domande che non trovano risposte. Occorrono perseveranza e robuste dosi di “amore samaritano per aprire queste porte sbarrate e scrutare, con umiltà e affetto, gli “spazi” psicologici e sociali in cui ricordi e sentimenti sono gelosamente custoditi. Sono traumi che non si superano con il semplice spostamento geografico, perché se uno il terremoto lo porta inchiodato nell’anima, anche se cambia città, lo trascina con sé.

Gli aquilani, gente tenace e motivata, grazie alla radicata fede cristiana e a solidi valori umani (collaudati dalle asprezze dell’ambiente montano) hanno maturato un’ammirevole “resilienza”, che li ha “equipaggiati” per affrontare e vincere gli attacchi minacciosi del terremoto: senza mai indietreggiare. In essi ha prevalso l’attaccamento alla loro terra, la fedeltà alle tradizioni e la irremovibile convinzione di potercela fare. Oggi sentiamo di dire, con orgoglio, che hanno avuto ragione! Anche davanti alle incursioni devastanti del terremoto, la bandiera di L’Aquila non è stata mai ammainata dalle sue mura ed ha continuato a sventolare con fierezza davanti agli occhi del mondo.

Ricostruire: molto è stato fatto e si sta facendo

Quando, poi, si parla della ricostruzione odierna, bisogna riconoscere con gratitudine che molto è stato fatto e si sta facendo.

Ma va pure detto, con onesta franchezza, che numerose promesse sono state smentite dai fatti e tante attese sono state tradite. Sta, penosamente, davanti agli occhi di tutti, la ricostruzione mancata. Poi, se lo sguardo spazia oltre il perimetro urbano di L’Aquila, si ha l’impressione che in diversi borghi e in frazioni periferiche si stia ancora all’ “anno zero”.

Nonostante la buona volontà di soggetti istituzionali e di organismi locali, si sono sommati disguidi e ritardi, causati da “labirinti normativi” e “artrosi burocratiche”. Gli errori fatti debbono essere rilevati con rigore, per essere “riparati”, se possibile! In ogni caso, vanno segnalati perché altri non incorrano negli stessi incidenti di percorso.

Auspichiamo una semplificazione delle procedure e una velocizzazione delle operazioni attuative, perché, sulle corte distanze, vengano riaperte case, strutture pubbliche e chiese (che non sono solo sedi di culto, ma luoghi identitari): ancora inagibili.

Non si evidenzierà mai abbastanza che la ricostruzione di una Città è impresa di popolo. C’è una saggia sentenza latina che così asserisce: “quod omnes tangit, ab omnibus tractari debet” (ciò che riguarda tutti, deve essere da tutti trattato). Gli amministratori e i tecnici operano a nome del popolo, non al posto del popolo: sono servitori, non sostituti.

Per ricostruire bene le pareti delle abitazioni, occorre prima ricostruire le case nel cuore della gente: con i mattoni della fiducia e il cemento della concordia.

Bisogna avere orizzonti ampi, visioni lungimiranti e capacità di confronto “allargato”: nelle comunicazioni progettuali e nei dibattiti civici è necessario adottare la grammatica dell’unità e il vocabolario dell’amicizia, promuovendo la fattiva testimonianza della convergenza, della corresponsabilità e della partecipazione.

Dare significato alla sofferenza per superarla

La ricostruzione più importante, che deve marciare parallela a quella “edilizia” è la “ricostruzione dei cittadini” e della comunità: sociale ed ecclesiale. Va precisato, però, che difficilmente si esce dal “terremoto dell’anima” per “guarigione spontanea”. La terapia che cura questi “dissesti” interiori non si improvvisa. Occorrono percorsi spirituali, psicologici e sociali adeguatamente “calibrati” e attrezzati. È urgente, perciò, mettere in atto sistemi ed esperienze di accompagnamento che aiutino le persone a dialogare con le tensioni che covano dentro, per imparare ad integrarle positivamente nella propria esistenza. Questi interventi mirati chiedono competenze professionali, specificità di contenuti e metodologie appropriate. Si tratta, infatti, di apprendere e praticare l’arte di ricavare vantaggi dalle avversità e perfino dalle sventure.

Occorre mobilitare – in forme di buona sinergia – la dimensione religiosa, culturale, sociale e politica (nel senso più nobile del termine), sapendo che solo insieme (nessuno escluso) si può vincere la sfida che il terremoto ci ha lanciato.

Si tratta di un’opera da mettere in cantiere, nel segno della coesione: lo dobbiamo non solo ai nostri compagni di viaggio (specie i giovani e i ragazzi), ma anche alle generazioni che verranno.