Le nuove stanze della poesia, Vittorio Monaco

Per la rubrica Le nuove stanze della poesia lo spazio dedicato al ritratto di Vittorio Monaco.
“La migrazione è stata ma na uerra: une s’è muerte e n’autre s’è perdute. De tanta gente che ce steva e tanta, Pettrane s’è redotte a puache a puache, no nu paese, ma nu Campesante”. Di Vittorio Monaco da Castagne Pazze, 1977.
Scrive di Vittorio Monaco Marcello Teodonio alla cerimonia di premiazione Sulmona 28 settembre 2019.
Intellettuale organico d’una nazione in veloce e vorticoso divenire, l’Italia della seconda metà del Novecento, attraversata dai conflitti enormi dell’emigrazione e della trasformazione antropologica dei nostri decenni, Vittorio Monaco (Pettorano sul Gizio, 1 aprile 1941 – Larino, 4 settembre 2009) ha vissuto una vita all’insegna dell’impegno verso la collettività: ha insegnato presso gli istituti di scuola media superiore di Sulmona dal 1965 al 1983; dal 1983 e fino al pensionamento è stato preside dell’Istituto tecnico “A. De Nino” di Sulmona; ha ricoperto la carica di consigliere comunale nel Comune di Pettorano sul Gizio dal 1970 al 1975, quella di assessore con delega di vicesindaco dal 1975 al 1980 e quella di sindaco dal 1980 al 1987; è stato consigliere comunale di Sulmona dal 1988 al 1993, assessore alla cultura del Comune di Sulmona negli anni 2000-2001, consigliere e assessore della Comunità montana peligna dal 1975 al 1993.
All’attività professionale e politica Monaco ha affiancato, durante tutta la sua vita, un’intensa attività culturale, promuovendo e animando associazioni e periodici, e pubblicando monografie.
È stato protagonista della riscoperta di numerose tradizioni della cultura tradizionale e ha dedicato una specifica attenzione allo studio dei “Capodanni arcaici” in area Peligna (i Capetiempe, una serie di momenti che si svolgevano tra il 31 ottobre e l’11 novembre: una festa dunque che, come diceva, era in uso “prima molto prima di quella di Halloween”), nonché al canto popolare di Pettorano: il canto lirico monostrofico, le canzoni di questua. Alla canzone popolare si è dedicato con passione e costanza anche come autore di testi poi messi in musica.
Dopo la morte di Vittorio Monaco è nato un Centro studi che prende il suo nome.
Il Centro Studi e ricerche “Vittorio Monaco” è nato a Sulmona nel 2011, su iniziativa di una gruppo di amici che con Vittorio hanno condiviso negli anni esperienze politiche, culturali e di vita.
Il Centro Studi e ricerche Vittorio Monaco si propone di promuovere, intorno ai temi prediletti da Vittorio, lo sviluppo di una libera ricerca da parte di quanti siano motivati a condurla in veste di cultori appassionati o di specialisti.
Al Centro Studi aderiscono, fra gli altri, le associazioni culturali “Pietro De Stephanis” di Pettorano sul Gizio e “Voci e Scrittura” di Sulmona delle quali Vittorio è stato uno degli animatori.
Vittorio è stato un punto di riferimento culturale e umano per i tanti che lo hanno conosciuto: nelle sue diverse funzioni di insegnante prima e di preside successivamente, nella sua produzione di autore profondo e originale egli ha saputo sempre indicare percorsi culturali e di ricerca innovativi, coniugando sapere e umanità.
Antonio Carrara che fu prima allievo e poi collega di Vittorio Monaco nel suo blog personale afferma: “L’emigrazione non a caso è uno dei contenuti centrali della sua poesia. Un tema molto presente nelle prime raccolte, rimasto sullo sfondo in tutta la sua produzione letteraria, per riemergere prepotentemente negli ultimi anni con la raccolta Microstorie e il saggio dedicato all’emigrazione italiana nella tradizione del canto popolare”.
“Sembra un tornare indietro, ma in realtà Vittorio lo fa per parlare dell’oggi, quando, seguendo i percorsi attuali delle migrazioni, anche la sua canzone diventa clandestina(…) E per ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno, che ieri come oggi, nonostante l’incorporazione delle masse nella cosiddetta cultura dell’abbondanza, la povertà è grande, il digiuno non è una pratica ascetica e i viaggi della speranza non sono crociere nel Mediterraneo. E che, dietro i discorsi che parlano di migrazioni solo in termini di cifre e di statistiche, c’è la vita degli emigranti: ci sono le loro autobiografie negate”.
Vittorio Monaco accompagnò da subito il proprio impegno professionale con l’impegno politico e culturale, che negli anni diventò anche impegno di amministratore pubblico, oltre che culturale e letterario. Nelle diverse fasi della sua vita, queste diverse dimensioni hanno sempre convissuto, con la prevalenza ora dell’una, ora dell’altra.(…)
Vittorio avvia parallelamente una grande azione di recupero delle tradizioni culturali pettoranesi dalla Serenata di Capodanno al Testamento di Carnevale e, via via, tutte le altre.
Non è, però, l’azione dello studioso, del ricercatore, è un processo più ampio, fatto di ricerca di senso, di coinvolgimento di un’intera collettività in una dimensione partecipativa, con l’obiettivo di costruire un immagine del paese dove si potesse resistere all’omologazione culturale ed evitare di concepire le iniziative culturali stesse come mero consumo.(…)
La scrittura in Vittorio Monaco non è stata quasi mai un attività e un’esperienza solo personale/individuale, nasce quasi sempre come progetto culturale collettivo: un convegno, una rivista, una presentazione, un volume collettaneo. Vittorio ha scritto molto, ma in fondo ha scritto molto meno di quanto avrebbe potuto scrivere.
La facilità, la chiarezza e la semplicità con le quali sapeva raccontare, gli avrebbero consentito di scrivere molto di più di quanto abbia fatto, eppure, sembra paradossale, in lui c’era un certa ritrosia a scrivere, lo faceva volentieri ma se quel suo impegno era parte di un impegno collettivo.
Per Nicolina D’Orazio : “In tutta la poetica di Vittorio si sente il dolore di chi non incontra più volti familiari e assiste allo spopolamento, al degrado del paese natio”.
Nelle pregevoli raccolte di versi in dialetto e in lingua intitolate Castagne pazze, Specie de vierne, Paese d’ombre, Le canzone d’iù viente, Vie della memoria, Microstorie, è un cantore dalla maestria immaginifica e metrica adagiato sul pentagramma della malinconia, della nostalgia di una Pettorano sparita, svuotata di persone, da dove la gente è partita a frotte per affrancarsi dalla miseria, contribuendo così alla distruzione del mondo contadino, e della sua civiltà millenaria.
Testimonianza dolorosa e sofferta di una irreparabile situazione meridionale che rivela le piaghe della diaspora di tutti i nostri borghi e paesi che li ha resi luoghi di consunzione e di disfacimento e li ha desertificati.
Questo lo rende simile ad un emigrante, un singolare tipo di emigrante che non è mai partito, è rimasto qui, ma come succede per coloro che partono, il suo mondo non esiste più, è perduto, esiste solo nel ricordo.
Anche se un luogo non è solo un luogo, ma le persone, le parole, gli eventi che lo abitano, è tuttavia attorno alla sua visibilità negata, attorno alla sua sparizione allo sguardo, che si dispiega il sentire della nostalgia. Questo punto fattosi invisibile e impossibile è spesso il luogo natale e alla terra materna si può tornare solo con la lingua materna.
Antonio Di Fonso e Antonio Carrara nel primo numero di “Abruzzoéappennino” a proposito del il titolo di copertina che aveva un richiamo alle tradizioni, evocativo e nello stesso tempo di immediata forza comunicativa come “Capetiempe, dove tutto comincia” si domandano che cosa dovesse cominciare e che significato avesse quella parola dialettale, la cui traduzione letterale significa Capotempo (Capodanno, inizio dell’anno).
Rispondono: “ce lo spiegò in una appassionata intervista il professor Vittorio Monaco. Ci raccontò come le tradizioni popolari delle nostre genti, quelle di Ognissanti e del culto dei morti, di San Martino, delle festività del Natale e del Carnevale, della Pasqua di resurrezione rappresentassero in realtà il carattere e l’essenza di una civiltà, quella contadina e preindustriale. Il carattere di queste manifestazioni era fortemente identitario: nel celebrare le feste le popolazioni abruzzesi si riconoscevano come comunità”.
“I culti e le festività, esprimevano una visione del mondo, religiosa e umana nello stesso tempo. I riti erano la testimonianza straordinaria di un mondo lontano, arcaico e apparentemente perduto, ma che in realtà tornava a esistere, a parlarci, familiare e riconoscibile. Quel mondo riviveva nelle processioni di Ognissanti e dei defunti; nei preparativi del pranzo in onore del Santo o nella questua che chiedeva dolci e caramelle; nell’allegria contagiosa delle serenate di buon anno; o infine nell’attesa trepidante della corsa della Madonna, la mattina di Pasqua, evento simbolico di rinascita religiosa e insieme stagionale, auspicio della primavera e della sua fertilità”.
“Quel mondo parlava di noi. Forse per questo motivo ci sembrò la scelta migliore quella di cominciare la nostra avventura editoriale proponendo l’intervista a Monaco: perché ci permetteva di definire le coordinate del nostro viaggio nelle comunità della montagna abruzzese. Le tradizioni popolari nella ricerca di Vittorio Monaco diventavano il nostro specchio, la nostra carta d’identità, fornivano il lasciapassare per accedere alla storia, alla modernità senza mai perdersi, sapendo sempre da quale cielo si provenga, da quale luogo si sia partiti. Proprio dalle tradizioni dovevamo partire per capire i luoghi, i posti, le persone che sarebbero poi diventati protagonisti di Abruzzoèappennino”.
Ce stèva, è tratta dalla raccolta Nu paése nevèlle (Un paese da nessuna parte), edito dall’Associazione Culturale Pietro de Stephanis nel 1997.
Ce stèva, a nu camine,
la vampa de nu fùache;
nu cétele, vecine;
la jatta, a capefùache.
Ce stèva, a nu curnécchie,
a gnammattà mammóccia;
a rattezzè nu técchie…
N’addóre de melóccia…
La cònca aiù cuncare…
E a vòlle, nu decòtte
che cucumèva sòtte
‘che na vóce de mare,
nu remmòure de tréne
che parte – e nen arriva…
Na lanca ancòura viva
che va ‘n cèrca de béne,
da lentanne, dïèsta!
Chemmà na malatia…
Se pèrde pe’ la via
tótte. Ma ièssa resta.
(V. Monaco, da Nu paése nevèlle, 1997)
C’era, in un camino,
ad ardere una vampa;
un bambino, vicino;
un vecchio gatto, accanto.
C’era, accostata all’angolo,
la nonna ad attizzare;
a ricapare un bandolo…
Le mele, ad odorare…
la conca nel concaio…
E a bollire, un decotto
che borbottava roco
con un’eco di mare:
un rumore di treno
che parte – e non arriva…
Un’ansia ancora viva,
che va cercando il bene,
da allora, fuorimano!
Come una malattia…
Si perde per la via
tutto. Ma lei rimane.
(traduzione V. Monaco)
Paese mia conchiglia
Paese mia conchiglia
Mia riserva sognante
Mia aria di famiglia
Mia pastura di ghiande
Mio guscio, mio uovo,
mia chiusa amara mandorla
mia bussola, mio bandolo
mio cammino a ritroso
nel mondo troppo grande
mia radice, mio frutto
mio dove dappertutto
alveare del cuore
dove invecchia e non muore
l’ape dei ricordi
che stilla miele e morde.