Le nuove stanze della poesia, Vittorio Clemente

8 novembre 2019 | 11:34
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Le nuove stanze della poesia, Vittorio Clemente

Il ritratto di Vittorio Clemente, penna della poesia dialettale abruzzese del secolo scorso.

Vittorio Clemente verrà raccontato da Valter Marcone.

Vittorio Clemente nacque a Bugnara il 12 aprile 1895 e morì a Roma nel 1975.

È considerato dalla critica uno dei pochi poeti dialettali d’Abruzzo e, al contempo, uno dei più originali ed interessanti autori del panorama letterario italiano dell’ultimo secolo.

Dopo aver frequentato la Scuola Normale di Tivoli, all’età di venti anni partecipò alla prima guerra mondiale combattendo sul fronte carsico quale Sottotenente di Fanteria.

In questo periodo conobbe Ardengo Soffici che lo chiamò a collaborare nell’Ufficio Stampa e Propaganda dell’Armata, affidandogli la redazione del giornale “Il Gazzettino del Soldato”.

Tra gli anni ’20 e ’30 svolse la professione di insegnante elementare in alcuni paesi d’Abruzzo; in seguito si trasferì a Roma per proseguire la carriera scolastica con incarico direttivo e, successivamente, ispettivo nel Circolo di Santa Maria Maggiore.

Uomo di cultura, animo sensibile ed equilibrato, dotato di naturale modestia e riservatezza, nel corso della sua vita coltivò vari interessi: scrisse di pedagogia e di saggistica, si occupò di letteratura giovanile e popolare, collaborando con i più importanti giornali del tempo.

La sua prima raccolta, “Malengunie” (andata smarrita), risale alla prima guerra mondiale, quando, sul fronte carsico, fu chiamato da A. Soffici alla redazione del “Gazzettino del Soldato”.

Il suo interesse più grande, però, fu rivolto verso la poesia dialettale e, ad essa, dedicò la sua passione.

Infatti, “Scrivo in dialetto – ebbe a dichiarare Vittorio Clemente – per un mio naturale bisogno espressivo. Io mi sento intimamente inserito nella mia terra abruzzese e sento che il mio linguaggio si fa di più ed essenzialmente abruzzese”.

“Il dialetto – aggiunse – è un linguaggio e come tale può assurgere ad espressione d’arte”.

Anche se iniziò a poetare in giovane età, è dal secondo dopoguerra che il poeta si accinse a pubblicare le sue più significative composizioni poetiche ispirate dall’amore per la terra d’Abruzzo e, in particolare, per il suo amato paese a cui era avvinto da un amore profondo e perenne.

Clemente ha cantato, quindi, Bugnara con la sua antica storia, le sue bellezze naturali, le sue antiche tradizioni, Bugnara dei ricordi di fanciullezza, legati agli affetti più cari.

Numerose le raccolte di poesie dialettali, tra le quali ricordiamo “Sclucchitte” (1949) e “Acque de Magge” (1952) considerate dal Pasolini, “la migliore poesia della letteratura abruzzese, dove l’Abruzzo diviene l’assolata echeggiante terra della personale infanzia”.

Da citare, inoltre, “Tiempe de sole e fiure” (1955), “Canzone ad allegrie” (1960), “Serenatelle abruzzesi” (1956).

Tutte le sue poesie, edite ed inedite, sono state raccolte nel volume “Canzone de tutte tiempe” e stampate dalla Editrice Itinerari di Lanciano.

Clemente si dedicò, inoltre anche a composizioni in lingua, quali “Adoriamo”, “Il Santo della Patria”, “Fuochi di Bengala”. Molti i riconoscimenti ricevuti dal poeta.

Come dicevamo il suo libro Sclocchitte. Sonetti abruzzesi (Gastaldi, 1949) colpisce l’attenzione del giovane Pier Paolo Pasolini che scrive la prefazione alla sua opera successiva, Acqua de magge (Società Editrice Siciliana, Roma, 1952), in cui afferma che “La poesia migliore della letteratura abruzzese sarà Acqua de magge di Clemente, poiché l’Abruzzo ricompare di scorcio, divenuto l’assolata, echeggiante terra di una personale infanzia”. A Clemente, Pasolini dedicherà un profilo critico nella sua antologia Poesia dialettale del Novecento (Guanda, 1952), curata insieme a Mario Dell’Arco.

Clemente procurerà anche lavoro a Pasolini, che scrive: “Nei primi mesi del ’50 ero a Roma, con mia madre… Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morirne. Poi con l’aiuto del poeta in dialetto abruzzese Vittorio Clemente trovai un posto di insegnante in una scuola privata di Ciampino, a venticinquemila lire al mese”.

Scrive Marco Scalabrino nel 2018: “Scrivo in dialetto – ebbe a dichiarare Vittorio Clemente – per un mio naturale bisogno espressivo. Io mi sento intimamente inserito nella mia terra abruzzese e sento che il mio linguaggio si fa di più ed essenzialmente abruzzese. Il dialetto – aggiunse – è un linguaggio e come tale può assurgere ad espressione d’arte”.

Scrive Marco Scalabrino nel 2018 in una recensione al volume di  Pietro Civitareale : “Vittorio Clemente una vita per la poesia”.

Due le facce della poetica di Vittorio Clemente: “da una parte rivolta alla introflessione, allo scandaglio della interiorità; dall’altra, alla registrazione degli aspetti dominanti dell’ambiente umano e naturale nel quale il poeta si trova e opera”.

“Svolta all’insegna della rimembranza, l’esperienza poetica di Vittorio Clemente, si colloca nell’ambito di quella tradizione italiana, segnatamente leopardiana e pascoliana, che trae i suoi temi e i suoi motivi dall’autobiografia, cioè da quel complesso interattivo di elementi personali ed extra-personali che costituiscono l’esperienza individuale”.

La sua visione, pertanto, ha “la particolarità di dipendere non tanto e non soltanto dalla immaginazione quanto dalla memoria, attraverso cui il poeta tenta di riscoprire, nella loro originaria purezza, i momenti culminanti del proprio passato. Quello di Clemente, dunque, si configura come un viaggio esistenziale alla ricerca di una verità del passato”.

Clemente rilegge i momenti più importanti della poesia dialettale abruzzese del Novecento, tracciando una linea interpretativa che si confronta con quella a suo tempo espressa da P. P. Pasolini ed entro cui si sottolineano i contributi più rilevanti delle poetiche simboliste e postsimboliste.

Tra le problematiche trattate quella del rapporto tra vecchio localismo e nuove esigenze di recupero antropologico-culturale.

Clemente muore a Roma, all’età di ottant’anni. In occasione della sua scomparsa, Ottaviano Giannangeli cura un fascicolo edito dalla casa editrice Itinerari, Itinerari per Vittorio Clemente, che raccoglie omaggi critici a Clemente, tra cui quelli di Pasolini, Caproni, Fortini, Sansone e Petrocchi.

Nel 1995, per il centenario della nascita, sempre Giannangeli realizza Le chiù fine parole (Ediars-Oggi e domani), in cui raccoglie il meglio dell’opera dialettale di Clemente, con un’appendice critica.

Opere: Prime canzône, Tip. Abruzzese, Roma 1924; La Madonna Addulerate, Tip. Angeletti, Sulmona 1925; Sia benedetta Roma, in “Strenna dei Romanisti”, Staderini, Roma 1945; Sclocchitte, Gastaldi, Milano 1949; Acqua de Magge, pref. Pier Paolo Pasolini, Edizioni Siciliane, Roma 1952; Tiempe de sole e fiure, Ed. Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1955; La Passione di N. S. Gesù Cristo, dai Canti abruzzesi, in “Piazza di Spagna”, Roma 1958; Canzune ad allegrie, Edizioni Quadrivio, Lanciano 1960; Serenatelle Abruzzesi, Edizioni La Carovana, Roma 1965. La sua opera è ora quasi integralmente raccolta in Canzune de tutte tiempe, intr. e trad. di O. Giannangeli, Itinerari, Lanciano 1970.

Oltre a Pasolini, hanno scritto di lui, tra gli altri, G. Caproni, G. Pischedda, E. Giammarco, O. Giannangeli (1958, 1959, 1969, 1970, 1995, 2002), G. Oliva, C. De Matteis, F. Brevini, G. Spagnoletti. È antologizzato da Pasolini-Dell’Arco (Guanda 1952; ora, con prefazione di Giovanni Tesio, Einaudi 1995), Chiesa-Tesio (Mondadori 1984), Spagnoletti-Vivaldi (Garzanti 1991), Brevini (Einaudi 1987, Mondadori 1999).

CHELA NOTTE D’ESTATE

Chela notte d’ estate, tutta stelle…
E nu quatrale spierse
appriesse appriesse a na luciacappelle
che nen s’ô fà acchiappà.
E chela voce:
Vittò! Revì alla casa!

da Canzune de tutte tiempe, 1970
Quella notte d’estate, tutta stelle…
E un ragazzo sperduto
dietro dietro a una lucciola
che ti fugge di mano.
E quella voce:
Vittorio! Torna a casa!

(Traduzione di Ottaviano Giannangeli)

A TIEMPE DE SORVE
Nu gricele alla vite…Me retrove
ancora na cullane
de sorve mmane; e quile piuoppe ancore
remire abballe l’acque chela fronna
gialle che treme e lùcceche, ammussite
mpizze a nu rame nire; e revà ammonte
la voce, pe lu colle: “Quande è tiempe
de sorve, amore amore, già l’estate
ha pigliate la vìe d’attraviezze…”
E pure mandemane, chela fronne
se raggruglie a nu fiate
de la muntagne. E dellà da nu vele
de nebbie, nfunne funne alla campagne,
chi ancora chiame? Chi redà na voce?

Un brivido per la vita…Mi ritrovo
ancora una collana
di sorbe in mano; e quel pioppo ancora
rimira giù nel fiume quella foglia
gialla che trema e luccica, immalinconita
in pizzo a un ramo nero; e ritorna su
la voce per il colle: “Quando è tempo
delle sorbe, amore amore, già l’estate
ha imboccato la via per di là…”
E pure questa mattina quella foglia
si riaccartoccia a un soffio
della montagna. E al di là di un velo
di nebbia, in fondo in fondo ai campi,
chi ancora chiama? Chi ridà una voce?

(Traduzione di Ottaviano Giannangeli)

Da Prime canzône

Mmatine d’autunne

Quanda malengunìe chéscta mmatine
pe llu ciéle bianghicce, senza cande!
I lla cambagne è ttriscte ’mm’annu piande,
cumm’annu piande doce senza fine…

Càschene lle foglie da le piande
chiane chiane nghe nnu frusce de trine…
De tande belle rose allu ciardine
o quande spine sò rremascte, quande!

Sò sfiurite lle rose, i cchiane chiane
svanìsçene glie suónne; éndr’allu core
de la bella sctaggione ce remane

nu recúorde nghe nn’ómbre de dulore…
Na vocia chiara canda da lundane:
Povere amore mëe, povere amore!

Mattino d’autunno. Quanta malinconia questa mattina / per il cielo bianchiccio, senza canti! / E la campagna è triste come un pianto, / è come un pianto dolce senza fine… // E cadono dagli alberi le foglie / piano piano con un fruscio di trine… / Di tante belle rose nel giardino / oh quante spine son rimaste, quante! // Son sfiorite le rose, e piano piano / anche i sogni svaniscono; entro il cuore / della bella stagione ci rimane // un ricordo, ed un’ombra di dolore… / Canta una voce chiara da lontano: / Povero amore mio, povero amore! // (Trad. di Ottaviano Giannangeli)

Da Sclocchitte

Lu paisitte mëe

Ammónde pe lla coscte scta agguattate
lu pajisitte mëe (1) tra gli vignéte;
n’atre cchiù bbiéglie (2) ji nenn aje trevate (3)
gerenne pe sctu múnne annanze i arréte.

Tra le vérde (4) de vigne i dd’ulivéte
s’affacce a uardà abballe alla vallate
ddó lu fiume se fa tande candate
tra ddu file de piúoppe (5) i dde cannéte.

Cande lu Seggettarie (6) frésche i cchiare
i lle uagliune càndene d’amore
mmeddse alla jerve nfiore de lu prate.

Lu pajisitte mëe è bbiéglie (7) i ccare:
ce scta mamma, la casa, lu mio core;
lu cchiù bbiéglie è dde tutta la vallata.

Il paesetto mio. Ammonte per la costa sta agguattato / il paesetto mio di tra i vigneti; /uno più bello non ne ho mai trovato / in giro per il mondo avanti e dietro. // Tra il verde delle vigne e degli ulivi / s’affaccia a guardar giù per la vallata / dove il fiume si fa tante cantate / tra due file di pioppi e di canneti. // Il Sagittario canta, fresco e chiaro, / e le fanciulle cantano d’amore / in mezzo all’erba in fiore delle prata. // Il paesetto mio è bello e caro: / ci sta mamma, la casa ed il mio amore; / il più bello è di tutta la vallata. // (Trad. di Ottaviano Giannangeli)