Poesia

Le nuove stanze della poesia, Cesare De Titta

Il profilo di Cesare De Titta, saggista, poeta e insegnante, per la rubrica Le nuove stanze della poesia.

Per Le nuove stanze della poesia, Cesare De Titta.

A raccontare Cesare De Titta per la rubrica Le nuove stanze della poesia, la penna di Valter Marcone.

Cesare De Titta nacque a Sant’Eusanio del Sangro (Ch) nel 1862 e vi morì nel 1933.

Ordinato sacerdote, insegnò Lettere classiche al seminario di Venosa tra il 1881 ed il 1889, divenendone anche rettore: al suo periodo lucano risalgono i suoi Saggi di traduzione da Catullo, pubblicati in Abruzzo nel 1890, presso la casa editrice Carabba.

L’opera gli valse il diploma honoris causa di insegnante di lettere da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, che nel 1891 gli permise di ottenere la cattedra di greco e latino presso il liceo classico di Lanciano.

Sempre presso la casa editrice Carabba pubblicò una Grammatica della lingua viva e una Grammatica della lingua latina.

In dialetto pubblicò: Canzoni abruzzesi (1919), Nuove canzoni abruzzesi (1923), Gente d’Abruzzo (1923), Terra d’oro (1925), Acqua, foco e vento (1929).

Tradusse in abruzzese La Figlia di Iorio e Le elegie romane di Gabriele D’Annunzio, del quale fu amico.

Scrive il Dizionario Biografico degli italiani della Treccani su Cesare de Titta : “Per la poesia in dialetto P. P. Pasolini (nella introduzione a Poesia dialettale del Novecento, Parma 1952, pp. XXXIV, XLIX-LII) ha parlato di pascolismo dialettale. Il De Titta . è più libero da schemi letterari tradizionali, rifiuta i pregiudizi teorici contro gli sperimentalismi e le avanguardie (cfr. Carmina, 1952, p. 295).

L’ultima poesia di Nuove canzoni abruzzesi (Lanciano 1923: L’artificie, il fuoco pirotecnico), pur nel controllo metrico, sembra una sfida ai futuristi sul loro immaginoso terreno.

Peraltro, gli “eroi” positivi di Gente d’Abruzzo (Firenze 1923), e nei drammi del ’24 che ne discendono come da un canovaccio, non sempre convincono; il mondo popolare del De Titta., nella sua quotidianità, nella sua gioia pacata, nella sua sofferenza contenuta, convince di più, così nella lirica come nei drammi e nelle commedie.

Un canone critico, difficilmente ribaltabile, pone in Terra d’oro (Lanciano 1925; 2 ediz., ibid. 1970) il vertice dell’arte, forse anche della ricerca filosofico-esistenziale del De Titta ., nonostante che egli cerchi ancora il poemetto misteriosofico per “sistemarvi” la visione dell’angosciata storia dell’anima umana: che crederà di realizzare in Acqua, foco e vento (Lanciano 1929).

Il D. ha scritto in certi appunti di estetica (inediti), utilizzati quasi alla lettera nei carmi Poesis e De poesi, che “il mondo dell’arte è vita rivissuta” e che “nel fondo inesplorato della nostra anima” vi sono vite vissute da altri e “vite che non si sono ancora manifestate”. Se la parola più ricorrente e pregnante del poeta è “anima”, l’atteggiamento però che gli è più congeniale è quello di chi sta in ascolto a captare quasi degli ultrasuoni di presenze in un paesaggio apparentemente fermo e solitario. È questa l’aura di Terra d’oro.”

De Titta è da ricordare nel panorama musicale abruzzese di tradizione popolare, perché insieme al Maestro atessano Antonio Di Jorio creò dei brani che oggi sono conosciutissimi nella regione, e la rappresentano al pari di “Vola vola vola” di Dommarco e Albanese.

Tra le musiche di maggior pregio ai ricordano “Din don – Lu Sant’Antonie – So jte a fa la jerve – Oilì oilà – Lu parrozze – Amore me’ – La canzone dell’uva – Famme murì”.

Si ricorda inoltre la trascrizione del testo anonimo di tradizione popolare “Tutte le funtanelle”, citato anche da D’Annunzio nel romanzo “Trionfo della morte”.

La casa-museo Cesare De Titta è un villino in stile liberty d’inizio Novecento nel centro storico di Sant’Eusanio del Sangro, luogo che che diede i natali al poeta e letterato. L’edificio, rinominato dallo scrittore “Cenacolo di Fiorinvalle”, fu il salotto culturale di artisti e scrittori abruzzesi attivi tra la fine dell’Ottocento e l’inzio del Novecento.

Tra i suoi frequentatori illustri: Gabriele d’Annunzio, Michetti, Spoltore, ma anche Pirandello e Gentile.

All’interno del villino sono custoditi gli arredi originali della casa, oggetti appartenuti al poeta, cartoline, foto d’epoca e un busto che ritrae De Titta. Completano il percorso una biblioteca e l’archivio storico. La struttura, si sviluppa su due livelli fuori terra, e uno seminterrato.

casa museo de titta

La facciata si compone di due corpi sfalsati fra loro. Le tre grandi finestre del piano nobile sono scandite da pilastri che poggiano su esili basi, sotto le quali è collocata la cornice marcapiano decorata con motivi floreali. Una targa commemorativa, affissa al di sotto della finestra centrale ricorda i natali di Cesare De Titta. La diversità di trattamento delle due strutture della facciata, inducono a pensare a diverse epoche costruttive.

«S’è cupertë de neve la Majelle,
s’è cupertë de neve Mondecorne,
o Terra d’Ore, E tu come nu giorne
de primavere all’uócchie mié ši’ belle.»
(Dalla canzone S’è cupertë de neve la Majelle)

La prima edizione fu pubblicata da Carabba editore nel 1919, e la nuova edizione accresciuta nel 1923, ripubblicata in edizione critica nel 1992. Con il Canzoniere, De Titta entrò nella storia della letteratura abruzzese in maniera ufficiale, restando l’esempio più importante del vernacolare abruzzese sotto-forma di monumentale raccolta di elegie e sonetti. Per la composizione si avvalse del sub-dialetto frentano, in particolare l’idioma dell’antica Monteclum, ossia di Sant’Eusanio del Sangro, da cui proverrebbe appunto tale parlata che spazia in tutta l’area del basso Sangro, c onfine con il vastese a sud, e a nord col chietino.

La maggior parte sono componimenti a tre strofe di una quartina più doppie strofe, a rime incatenate ed endecasillabi.

La trascrizione è fatta su lettura della prof.ssa Adelia Mancini, San Vito Chietino, che è anche un’attenta studiosa dell’opera di Cesare De Titta. Le poesie sono tratte da Terra d’Oro. Le traduzioni sono dell’autore.

Piove e fere lu sole
Piove e fere lu sole, e mà gné ogge
s’è vviscte, pe lu Colle de la Live,
la cambagne accuscì ffiurite e vive,
tra lu véle settile de la piogge.
Piove e fére lu sole, e la culline
piagne e ride tra l’ómbre che ccamine,
gna fa cavvote pe la tenerézze
la faccia belle de la ggiuvenézze.

Piove e risplende il sole. Piove e risplende il sole, e mai com’oggi / s’è vista, per il Colle de l’Ulivo, / la campagna così fiorita e viva, / sotto il velo sottile de la pioggia. // Piove e risplende il sole, e la collina / piange e ride tra l’ombra che cammina, // come talor fa per la tenerezza / la faccia bella de la giovinezza.

Lu cande de Terra d’Ore
S’è ccuperte de néve la Majelle,
s’è ccuperte de néve Mondecorne,
o Terra d’Ore, e tu come nu ggiorne
de primavere all’uócchie mié scì bbelle.
Nghe le frónne u la néve pe li rame,
scì bbelle déndre all’àneme che cchiame:
nghe lu ciéle seréne u l’ómbre nire,
scì bbelle éndre a lu core che ssuspire.

O Terra d’Ore, quande sone e cande,
e speranze e recuórde! Nen g’è state
nu ggiorne maje che n-de so candate
nghe lu rise a la voce u nghe lu piande.
Te so candate a tutte le sctaggiune,
te so candate tutte le canzune,
quande fiurive e quande t’ì sfiurite,
e sctu cande nen è, nen è ffenite!

Il canto di Terra d’Oro. I. S’è coperta di neve la Maiella, / s’è coperto di neve Montecorno, / o Terra d’Oro, e tu come in un giorno / di primavera a gli occhi miei sei bella. // Con le fronde o la neve per i rami, / sei bella dentro l’anima che chiama: // con l’ombre nere o il cielo di zaffiro, / sei bella dentro il cuore che sospira. // II. O Terra d’Oro, quanto suono e canto, / e speranze e ricordi! Non c’è stato / un giorno solo che non t’ho cantata / con il riso a la voce o con il pianto. // Ti ho cantata in tutte le stagioni, / ti ho cantato tutte le canzoni, // quando fiorivi e quando sei sfiorita, / e il mio canto non è, non è finito!

Lu piande de le fojje
Lu ciéle è cchiuse e chiuse è la mundagne,
le fojje gialle casche a une a une,
e se cojje la live, e la cambagne
tra la nebbie aresone de canzune…
Sembre sta nebbie, amore, gna se cojje
la live, e casche all’àrbere le fojje!
S’aldse a lu ciéle tande e tande scale
gné tra nu sonne che nnen zacce dire;
sajje candenne l’àneme e recale
da ngiéle nderre e jette nu suspire…
Puórteme tra la nebbie, tra le rame,
na scale, amore, all’àneme che cchiame.
Ngime a na scale ce sta na fijole
che mmeddse all’atre voce fa da prime,
e, gna vulésse aretruvà lu sole,
s’aàldse aàldse e se ne va cchiù ngime…
Ah cchéla voce che ffa da suprane,
amore amore, falle candà piane!
Le fojje fa nu piande pe la vije,
e lu cande aresone éndre a lu core
gné nu salute afflitte, gné n’addije
de tande cose bbielle che sse more,
de tande care nuóde che ss’asciojje,
amore, tra lu piande de le fojje.

Il pianto delle foglie – Il cielo è chiuso e chiusa è la montagna, le foglie gialle cadono a una a una, e si colgono le olive, e la campagna tra la nebbia risuona di canzoni… Sempre questa nebbia, amore, quando si colgono le olive e gli alberi perdono le foglie! Si alzano al cielo tante e tante scale come in un sogno che non so dire; sale cantando l’anima e ritorna dal cielo in terra e manda un sospiro… Tra la nebbia, tra i rami, porta una scala, amore, all’anima che chiama. In cima a una scala c’è una figliola che tra le altre voci fa da prima e, come se volesse ritrovare il sole, sale sale sempre più in cima… Ah, quella voce che fa da soprano, amore amore, falla cantare piano! Le foglie fanno un pianto per la via, e quel canto risuona dentro al cuore come un triste saluto, come un addio di tante cose belle che muoiono, di tanti cari nodi che si sciolgono, amore, tra il pianto delle foglie.

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