Le nuove stanze della poesia, Romolo Liberale

19 marzo 2020 | 11:58
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Le nuove stanze della poesia, Romolo Liberale

Il ritratto di Romolo Liberale per l’appuntamento con la rubrica Le nuove stanze della poesia a cura di Valter Marcone.

Romolo Liberale dopo le elementari ha fatto il bracciante sotto Torlonia. A 16 anni, morto il padre e venendo da una famiglia povera, è stato costretto ad andare a Roma a fare l’operaio, poi è partito per il servizio militare. In seguito è ritornato e ha fatto il dirigente provinciale politico dei braccianti.” – racconta Mirka Liberale – E’ stato il primo segretario della Camera del Lavoro di Sulmona e in seguito segretario della Camera del Lavoro di Avezzano. E’ ritornato a dirigere i contadini diventando Presidente e membro del direttivo Alleanza Contadini e presidente del Consorzio Bieticoltori del Fucino, in un periodo dove queste organizzazioni contavano. Erano gli anni ’60. Una grande forza e tenacia di conduttore.”

Romolo Liberale è un poeta e scrittore marsicano, nato a San Benedetto Dei Marsi nel febbraio del 1922, è morto il 26 ottobre 2013.

Nel 1952 esce il suo primo libro di poesie “Ce vo ne munne gnove” a cui seguiranno molti altri libri di poesia e saggi.

Durante la vita politica Liberale ha ricoperto ulteriori incarichi a livello regionale e nazionale.

Una volta in pensione Liberale si è dedicato totalmente all’attività culturale occupandosi di critica d’arte, allestimento di mostre per i più importanti pittori italiani ed edizioni di varie cartelle di grafica.

Ha collaborato con il teatro Il Lanciavicchio che ha rappresentato alcuni suoi testi.

Nella sua vita ha scritto per numerosi quotidiani e riviste nazionali e locali ed in particolare per il quotidiano abruzzese “Il Centro”.

Liberale tra i suoi incarichi ha ricoperto quello di Direttore della biblioteca comunale di S. Benedetto, presidente del Centro siloniano di Pescina e socio dell’Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea, membro dell’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale.

Nel mese di ottobre 2014 nella ricorrenza del 1º anniversario della morte è uscito il documentario dal titolo “Romolo Liberale poeta e scrittore, sindacalista e politico” scritto e diretto da Haydir Majeed con la collaborazione del teatro il Lanciavicchio di Avezzano.

Nel mese di gennaio 2015 è stata dedicata una sala a suo nome nella nuova biblioteca comunale di San benedetto dei Marsi.

DA ” PAROLE ALL’UOMO “

Ode ai 33 di Capistrello
I

Salivano sui monti conosciuti
come salgono i pensieri nel tempo
come salgono le parole dei poeti
e salgono le preghiere dei fedeli
e salgono i sentimenti dei puri.

Salivano sui monti conosciuti
come salgono le rondini nel cielo
come salgono le cime degli alberi
e salgono i canti nella notte
e salgono le pene dei poveri.

Salivano, salivano, salivano
come sale l’implorazione dei deboli
e sale il grido degli eroi
come sale l’affetto delle mamme
e sale la speranza degli umili.

Ogni giorno salivano,
salivano come il canto del gallo all’alba
come le note di un concerto
come l’amicizia degli uomini
che vanno incontro allo stesso destino.

Ogni giorno salivano, salivano,
salivano sui monti conosciuti.

II

Conoscevano ogni filo d’erba
ogni sasso e ogni sentiero.
Conoscevano il caldo dell’estate
e il vento che si alzava leggero
quando la notte calava sui monti
e si accendevano piccoli fuochi.

Conoscevano il nome d’ognuno
e il richiamo dei muli vaganti
e il tenero belato dell’agnello
e il trotto del cavallo sbrigliato
e il muggito delle docili mucche.

Il bianco del latte fresco
della lana e della notte di stelle,
della loro innocenza e dei primi biancospini
e il fruscio dei castagni
e l’ombra delle rocce pallide
erano il loro mondo chiuso
all’odio sofferto dal tempo.

Avevano nelle mani e nel volto
i segni del loro mondo nudo
e portavano nell’anima le speranze
nate dalla fatica e dal sudore
che si consumano serene
nelle ore lunghe del giorno
e nelle ore stanche del riposo.

III

Vennero i giorni della primavera.
Il Liri si copri d’allegria
cantò ai colori delle pratelline
andò a piangere sui seminati.
Nella valle fiorirono i ciliegi
e il grano si fece alto.

I campi non furono più tristi
quando sopra vi sbocciarono gentili
i fiori portati dal maggio.
Nessuno parlò di morte
tra le spine dei rossi lamponi.
Ma la morte era in ogni pietra
in ogni filo d’erba e in ogni foglia.
La morte vagava per le rive del fiume,
negli occhi delle bestie inquiete
ed era nel taglio affilato della scure.

La morte era nell’odio tra gli uomini
veniva dai motori del cielo
e dalle armi infuocate di Cassino.
Ed era nascosta nel cuore dell’uomo
che ha visto sangue senza piangere
che non ha pianto quando ha visto morire
che non ha chiesto la luce della luna
sul lamento soffocato degli insepolti.

La morte, la morte, la morte!
Era il tempo che finiva
rompendo la catena delle ore.

IV

Quando iniziarono a scavare la fossa
tacque il mormorio del ruscello.
Una nube sali nel cielo a nascondere col suo nero di lutto
la rosa calda del sole.

Anche la lucertola fuggi lontano
e la lepre spaventata
e l’odore dei bianchi sambuchi.
Solo la vipera alzò la testa
immobile sulla terra calda.

Le mani strinsero le mani.
Le parole e il pianto
narrarono di sogni incompiuti
e degli occhi delle madri
e del bacio dei figli e delle spose.
E l’ultimo pensiero andò lontano,
ai focolari spenti e alla terra arata,
alle spighe ancora verdi
e ai giorni del domani,
ai canti che si spegnevano in pieno giorno
e al volto degli amici,
a se stessi che salivano il Calvario
e a noi a noi che siamo rimasti
a cogliere i frutti della stagione
nata dal loro martirio.

V

Erano trentatré come gli anni di Cristo
che si consumano nelle ultime ore
dello spasimo, dell’agonia e della morte.
Non li chiamavano per nome
perché erano li senza colpa.
Un cenno, una spinta, un urlo
e la morte li coglieva alle spalle
unendo il gemito di chi andava
all’angoscia di chi attendeva.

La fossa si fece bara di morte
nel tiepido meriggio di giugno.
Noch ein! Noch ein! Noch ein! “
E un colpo dopo l’altro
rompeva il grido del sangue vivo
e il sangue si fondeva insieme
nella coppa umida della terra.

Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido
lontano, oltre la malinconia dei roveti,
un requiem si scaldava al lume dei casolari
e gli uomini attendevano il mattino.

LA RANOCCHIARA

Ricordo solo che cantava
con una rosa rossa tra i capelli
e che la sua canzone,
rubata dal vento,
si perdeva tra i rami del pioppeto.

Ricordo il colore della sua pelle
macchiata dai succhi del trifoglio
quando veniva l’ora dell’amore
e la sua bocca inquieta
diventava fuoco.

Ma non ricordo il suo nome!
I giovani del villaggio
la chiamavano ranocchiara
quando scendeva nelle cinte del Fucino
e la sua gonnella scarlatta
si alzava leggera sull’acqua.

E quando l’ultimo caldo di settembre
ci portava sotto i pioppi giganti
nel suo corpo sentivo
l’odore del fiume
e quieto mi addormentavo sull’erba
accarezzando le sue perle vive
che accese nel suo petto
sfidavano la luce della luna piena.

Testi tratti dal libro Poeti Marsicani