Emergenza Poesia, i limiti invalicabili dell’uomo al meriggio

La poesia in tempo di emergenza: spunti poetici per reagire all’isolamento da Coronavirus. L’appuntamento giornaliero curato da Alessandra Prospero per Il Capoluogo: oggi con Eugenio Montale
Emergenza Poesia, i limiti invalicabili dell’uomo al meriggio
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
“Meriggiare pallido e assorto”, Eugenio Montale
La solitudine della condizione umana permea interamente la celebre poesia di Eugenio Montale, che riportiamo. Il poeta genovese, Premio Nobel per la letteratura nel 1975, canta la desolazione dell’isolamento attraverso l’ambientazione circostante. L’infinito su cui si regge la prima strofa, ma concettualmente anche tutta la poesia è un verbo che di per sé rimanda al finire, al tramontare delle giornate e della vita: meriggiare, cioè passare il pomeriggio. Il termine fu utilizzato anche dai cosiddetti “poeti laureati”, D’Annunzio, Pascoli, Gozzano e Boine, ma in Montale è esclusa ogni voluttà idillica, dato l’accostamento di “meriggiare” a “un rovente muro d’orto”. Del resto Montale prendeva le distanze dal registro stilistico della tradizione aulica.