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50 anni fa nascevano le Regioni, una riforma mancata: virus e regionalismo all’italiana

6 novembre 2020 | 06:59
50 anni fa nascevano le Regioni, una riforma mancata: virus e regionalismo all’italiana

Nessuno si è sognato di festeggiare i 50 anni del regionalismo italiano, un sistema elefantiaco ed inefficiente sorretto da una normativa confusa e barocca. L’economista Piero Carducci: “La pandemia vince, le Regioni perdono”

In queste settimane ricorrono i 50 anni dalla nascita delle regioni (correva il 1970); il regionalismo “all’amatriciana” mostra i segni di una cattiva genesi, di una pessima crescita e di una maturità declinante. Nessuno si è sognato di festeggiare i 50 anni del regionalismo italiano, un sistema elefantiaco ed inefficiente sorretto da una normativa confusa e barocca, un sistema di cui gli italiani farebbero volentieri a meno.

La pandemia vince, le regioni perdono, questa è la sensazione diffusa anche tra gli estimatori storici del regionalismo.

Anche il Governo centrale ha molte colpe, ovviamente, ma l’emergenza sanitaria dimostra che il sistema delle competenze “esclusive e concorrenti” non funziona, si inceppa, allunga i processi decisionali, confonde, apre la strada al vergognoso scaricabarile tra i diversi livelli decisionali, apre devastanti conflitti di competenza che fanno la felicità del virus dilagante.

La Costituzione, è vero, prevede le Regioni, ma non quelle attuali, il contrario di quanto previsto dal costituente che pensava ad enti vicini ai cittadini, voce dei territori, capaci di interpretare al meglio le necessità della variegata ricchezza municipale italica.

Nulla di tutto questo: le regioni sono diventate carrozzoni costosi, duplicate nelle funzioni amministrative rispetto alle altre articolazioni dello Stato, lontanissime dai cittadini e dalle loro reali esigenze che sono rimaste appannaggio dell’unico ente locale che la gente sente davvero utile: il Comune ed il suo Sindaco.

A cinquant’anni di distanza il pasticcio indigesto del regionalismo mancato mostra tutti i suoi limiti; la politicizzazione spinta delle regioni, la loro sostanziale inutilità fa riflettere sulla bontà di una riforma federale che ha creato una Babele costosa, clientelare e labirintica, che pesa sulle tasche dei cittadini ed ha dilatato immensamente una burocrazia pletorica ed intoccabile, senza minimamente rispettare il mantra fasullo della “vicinanza” al cittadino.

A cinquant’anni dalla nascita non c’è nulla da celebrare, ma c’è moltissimo da riformare.

La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza i limiti di un sistema che non funziona e mostra limiti strutturali proprio nei momenti in cui le istituzioni dovrebbero lavorare all’unisono per cogliere lo stesso obiettivo: sconfiggere o quantomeno limitare la diffusione del virus. Le regioni hanno l’autonomia nella programmazione e il governo nei LEA (livelli essenziali di assistenza).

Entrambi possono decidere, e questo crea una inaccettabile confusione ed un vergognoso scaricabarile.

Nell’emergenza per legge prevale lo Stato, e questo concetto dovrebbe essere chiaro a presidenti che “giocano” pericolosamente con una comunicazione tanto ambigua quanto aggressiva ed inconcludente. Se il federalismo resta com’è oggi, a metà del guado, e per di più continua a mancare senso della responsabilità, rischiamo tutti di affogare.

Modello tedesco (federalismo pieno) o cancellazione delle regioni, modello federale o Stato centrale.

Si decida una buona volta, oppure il prossimo virus (e la globalizzazione selvaggia, ahimé, ne produrrà molti di virus) non potrà essere gestito con questo assetto balordo.