Autismo, genitori e figli: la solitudine di crescere un bambino speciale

18 dicembre 2020 | 07:06
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Autismo, genitori e figli: la solitudine di crescere un bambino speciale

Genitori e disabilità, crescere un figlio speciale significa, spesso, ritrovarsi soli. “Capisco” dicono in molti, ma non basta. C’è bisogno di persone competenti al tuo fianco, a dirti “tranquillo, si può fare così: andrà bene”.

Dove può aggrapparsi un genitore di un bambino autistico? Mentre la vita di tutti va avanti, ogni giorno, essere genitori e affrontare la disabilità del proprio figlio sembra spesso costringerci a restare un passo indietro. Frenato da timori e angosce che non vanno via, nel buio della solitudine. La comprensione espressa a parole non può bastare, serve molto di più. Anche a L’Aquila.

“Esiste un sommerso. Sono realtà che non conosciamo, ne ignoriamo le dinamiche e le difficoltà. Le nostre vite vanno avanti tutti i giorni con piccoli e grandi drammi, ma non abbiamo idea di cosa ci sia oltre le nostre certezze, oltre la nostra ‘normalità'”. Abbiamo chiesto, allora, cosa c’è oltre la normale vita di tutti i giorni, quella di genitori e figli, all’educatrice Sara Salini.

“Ci sono famiglie per cui nulla è scontato, che devono impegnarsi fino ad arrivare al punto di rinunciare per ottenere ciò che spetta loro di diritto. Sono le famiglie che hanno a che fare con lo spettro autistico, con la disabilità, o con difficoltà di cui si occupano i servizi sociali: spesso stracolmi di lavoro e quindi mai veramente attenti a qualcuno“.

“Ma noi sappiamo che queste situazioni esistono, quello che non sappiamo è cosa c’è nel quotidiano, cosa c’è oltre la superficie”.

All’inizio, nell’immediato post diagnosi, manca anche il sonno. E ne mancherà molto nel percorso di crescita del proprio figlio. Poi si parte, cercando di mettere da parte le inquietudini e di offrire quanto abbiamo da dare a chi ha bisogno di noi.

“Le notti insonni dopo una diagnosi di disturbo dello spettro autistico di un figlio, il difficile percorso per accettarla. Il timore che il mondo non lo tratterà mai come vorreste, l’angoscia per come possa sentirsi, per ciò che sarà dopo di noi. Ancora, il senso di colpa per sbagli mai fatti. Le trafile, lunghissime telefonate e giri di persone per poter avere un servizio di supporto,le terapie all’avanguardia fin troppo costose, un’insegnante che sia abbastanza paziente, una struttura che lo possa stimolare, un’organizzazione che non pensi solo a farsi la guerra con le altre.
Ancora, dinamiche legali, giudici minorili, assistenti sociali, avvocati che ti trattano con sufficienza, milioni di telefonate per prendere appuntamenti e ottenere relazioni scritte. I muri, le porte sbattute in faccia, chiedersi costantemente a chi ci si deve rivolgere“.

Quasi una corsa a ostacoli cercare qualcuno che sappia darti ciò che ti serve: consigli e suggerimenti preziosi per non sbagliare.
E poi orientarsi: tra la burocrazia, i costi spesso insostenibili per una famiglia, la ricerca della scuola giusta. Tanti tentativi che andranno a vuoto. È soprattutto allora che si inizia a sentirsi soli.

Cos’è allora ciò che resta sommerso, quindi nascosto a molti?

Il sommerso riguarda proprio la solitudine. Perché peggio di avere una diagnosi nefasta, una situazione difficile in casa o gestire la disabilità, è il sentirsi soli nell’affrontarla, e la solitudine c’è ed è palpabile. Servizi sociali, associazioni, le insegnanti e tutta la gente che orbita attorno a questo mondo… ma in fondo poi, si resta da soli con le proprie paure, perché nessuno alleggerisce davvero il peso che grava sulle nostre spalle“.

Qual è il problema più grande?

“Le associazioni, le strutture pubbliche e private, le organizzazioni, sono fatte da persone e quello che manca ègente realmente preparata e interessata a dare supporto, aiuto concreto. Ci si perde piuttosto in azioni narcisistiche, volte a dimostrare la bravura personale rispetto ad altri, dimenticandoci che la madre e il padre che abbiamo davanti hanno bisogno di soluzioni urgenti, concrete, immediate. Un’insegnante di sostegno, una terapia adeguata, un supporto legale e qualcuno che ci dica «tranquilli, andrà bene, si può fare così»”. Ci spiega la dottoressa Sara Salini.

Da dove bisognerebbe cominciare per aiutare e aiutarsi?

“C’è bisogno di scuotersi, c’è bisogno di vederlo questo sommerso, che venga in superficie, che lo guardiamo in faccia e capiamo il da farsi. Sarebbe auspicabile che queste famiglie abbiano un percorso certo da seguire, gratuito, qualcuno a cui rivolgersi e delle risorse che possano seguirne passo passo un cammino già complicato.
Non bastano più gli sguardi di compatimento, le frasi come ‘capisco’. L’Aquila è un capoluogo di provincia, come di ‘provincia’ – per certi ambiti – è la mentalità. Essere all’avanguardia significa muoversi all’unisono, smettendo di farsi la guerra per il predominio territoriale. Soltanto attivando servizi che funzionano, che sono accanto alle famiglie si può cambiare qualcosa”.