Cultura

Le nuove stanze della poesia, il ricordo di Franco Loi

Walter Marcone ricorda il poeta dialettale milanese Franco Loi, per anni nella giuria del premio di poesia Lanciano.

Franco Loi, il ricordo del poeta dialettale milanese per l’appuntamento con la rubrica Le nuove stanze della poesia, a cura di Walter Marcone.

Franco Loi è stato componente della giuria del Premio di poesia Lanciano per alcuni decenni.

E’morto a Milano, a 90 anni, il poeta Franco Loi. Nato a Genova nel 1930, si era trasferito a Milano giovanissimo, dove aveva iniziato a produrre le sue poesie in dialetto milanese, tra l’epica popolare e l’intimismo lirico. Oltre che essere considerato uno dei maggiori poeti del Dopoguerra, Loi era anche critico letterario.

Scrive Marcello Marciani sul suo profilo fb : “E’ stato per anni autorevole membro di giuria del Premio di Poesia “Lanciano” e, dopo la morte del prof. Mario Sansone, che ne era il Presidente, assunse di fatto quel ruolo anche se non volle mai formalizzarlo, sia per modestia che per rispetto della memoria di Sansone.

L’ho sentito per telefono la sera di Santo Stefano per gli auguri festivi e mi aveva impressionato la voce: un filo sottilissimo, appena udibile, che tuttavia esprimeva come sempre attenzione e curiosità per l’altro.

Come furono belli, ricchi, gioiosi e formativi quegli incontri annuali di giuria del Premio, con discussioni animate sulle opere concorrenti e Franco che con un sorriso e una battuta incisiva riusciva a conciliare i pareri contrastanti!”

Esordisce solo nel 1973 come poeta in dialetto e ha subito un buon successo con l’opera “I cart” edita dall’Edizione Trentadue di Milano e l’anno dopo, 1974, con Poesie d’amore edite da Il Ponte.

Nel 1975 il poeta dimostra di aver raggiunto la completa maturità di espressione con il poema Stròlegh, pubblicato da Inaudi con prefazione di Franco Fortini, di cui una parte aveva già visto la pubblicazione nel secondo “Almanacco Dello Specchio” ricevendo una critica positiva da Dante Isella.

Nel 1978 scrive la raccolta Teater, edita da Einaudi e nel 1981 l’opera L’Angel, pubblicato a Genova dalle Edizioni San Marco dei
Giustiniani e “L’aria de la memoria”, edita da Einaudi che raccoglie tutte le poesie scritte tra il 1973 e il
2002, tra le quali alcune già edite nella raccolta I cart e Poesie d’Amore.

Molte altre sono le sue opere, tutte scritte in dialetto milanese, tra le quali Lünn, Liber, Umber, El vent, Isman, Aquabella, Pomo del pomo.

Oltre alle raccolte di poesia Loi ha scritto, nel 2001, un libro di racconti intitolato L’ampiezza del cielo e ha pubblicato diversi saggi.

Nel 2008 il Premio di poesia Lanciano è giunto alla XXX edizione : il concorso è aperto a tutti gli autori italiani che si esprimono in uno dei dialetti della Penisola ed  è suddiviso in due sezioni: – la Sezione A, riservata ad un volume di versi edito in data non anteriore al mese di febbraio 2005. – la Sezione B , intitolata ad Amedeo Giacomini e riservata ad un’Opera Prima, ovvero ad un volume di autore esordiente nella poesia dialettale, edito in data non anteriore al mese di febbraio 2005.

I premi, ammontanti ad Euro 2500.00 per la Sezione A ed Euro 1000.00 per la Sezione B, saranno attribuiti a giudizio insindacabile della commissione giudicatrice composta da: Ottaviano Giannangeli, Franco Loi, Claudio Marabini, Marcello Marciani, Giuseppe Rosato, Achille Serrao, Giovanni Tesio.

Per Franco Loi in una intervista a nuovi argomenti.net ha detto una volta: “La lingua nasce dalla vita,
dalle emozioni.

Mi ricorderò sempre quando Sereni mi ha portato a Monte Marcello, sul mare, dove c’erano gli osservatori costruiti dai tedeschi, e mi ha detto ‘Guarda’ e poi ‘Cosa ne pensi?’, ‘Bello’ ho risposto, e lui ‘No. Guarda ancora’ e poi ha chiesto ‘Adesso cosa ne pensi?’, e io ‘Ma come si fa a dire cosa ne penso?’, l’emozione era così forte. Poi Sereni ha letto una sua poesia, Un posto di vacanza, che si ispira a quei luoghi, e ho ritrovato la risposta, lui aveva scritto esattamente la mia emozione.

Noi spesso crediamo di vivere, ma passiamo tra le cose senza rendercene conto. Tuttavia il nostro inconscio le raccoglie…” e alla
domanda fondamentale: “… e come vengono trasformate in lingua?” ha risposto: “Seguendo l’emozione.
Rivivendo la situazione. La lingua ricrea un sogno, una parte dell’inconscio. Quando si scrive si rivive
l’emozione, come nel sogno. La poesia si costruisce con il proprio inconscio”. 

Nella stessa intervista afferma a proposito della lingua ,il dialetto , in cui lui stesso scrive le sue composizioni: “Nel De vulgari eloquentia Dante dice che i romani parlavano una lingua della grammatica (si riferisce al latino), però la vera lingua è quella si impara dalla nutrice e dalle persone circostanti, cioè dal popolo. Perché Dante afferma ciò? Il popolo nel parlare è più attento ai suoni che ai significati. Opinione condivisa da Yeats e da Delio Tessa. Di quest’ultimo ricordo sempre l’affermazione: “il mio maestro è il popolo che parla perché è più attento ai suoni delle parole che ai contenuti apparenti”.

Il dialetto, secondo me, è una lingua che non scompare perché il popolo mantiene, per dirla con Dante, la lingua che ha imparato dalla madre o dalla nutrice. In più il popolo ha un’altra dote: quando parla non conosce la grammatica, quando parla inventa la lingua. La lingua, il milanese con cui parlo e scrivo io non è il milanese di Carlo Porta o di Delio Tessa. È il milanese che io ho ascoltato. Il popolo adatta le parole al suo uso, la lingua è una creazione spontanea.”

E dansi, furli,
e ’n’ambra glissetera m’involg,
la sbiava, la m’unda tra i cȃ sbiess,
che ‘l cör ciuscatt par brascia ’n’üseléra
d’aria bibiana e de smiròld beless…
Bel zéfir,brisa,
galȗpp d’un Casurett!
Tra mí e i mund  franguell gh’era ’n strighèss
ch’i bej revèrber e i tumbin secrett
me curr incuntra, e fan festa, e i stell
legriusen ’n’alamanda ai grund che scend,
e mí, l’è ’nfiur, un ciall, un va de firisèll
al durbià del timid che nel venter
se tegn scundü ’me se tegn l’üsèll…
Grí San Maternu,
Bianca Maria de semper,
mia edicula, scirossa di cantun,

pulver di òmm che passa e par che stemper
s’inultra al dí luntan che vegn lirun,
sfrûs sass di strȃd, umbrius tumbin che ria,
aria de Casurett, scür trani siún,
uh sí, ve tucchi, sí, ve parlaría,
ma quanti vus, quanti respir al vent!
e ’sta manfrina de la fantasia
che per la piassa dansa sciabelent…
E al spiöv di lüs lampiun
saltrella e slisa el furbol di record,
traversa el vent.

E danzo, furlo, e un’ambra profumata e fuggitiva/mi avvolge, fa impallidire e sbiadisce gli oggetti,
mi trascina come un’onda tra le case sbilenche,/che il cuore che vuole ubriacarsi sembra abbracciare
un’uccelliera/ di un’aria interminabile e fresca e pregna di balenanti bellezze…/Bel vento di
ponente, brezza, ragazzo vagabondo di un Casoretto!/ Tra me e i mondi fringuellanti c’era un
intrico di sortilegi/ che i bei riverberi e le fogne segrete/ mi corrono incontro, e fanno festa, e le
stelle/ improvvisano l’allegria di un ballo allemando alle grondaie che scendono,/e io mi sento un
fiore in un giardino di fiori, un chiaccherare, un andare come sorsate di vino chiarello frizzo/ allo
svolgersi dubitoso della più intima timidezza che nel ventre/si tiene nel buio nascosta come si tiene
l’uccello…/Capriccioso-fantastico San Materno,/chiesa di Santa Maria Bianca di sempre,/mia
edicola della giornata, turbine di polvere agli angoli delle strade,/polvere degli uomini che passano e
sembra che stemperata in aria/s’inoltri verso il giorno lontano che viene pigramente,/furtivi sassi
delle strade, ombrose condutture che scorrono,/aria di Casoretto, buie osterie da succhiavinacci,/oh
sí, vi tocco, sí, parlerei con voi,/ ma quante voci diverse, quanti respiri porta il vento!/ e questa
danza monferrina della fantasia/che per la piazza balla a gambe sciabolanti…/E, allo spiovere delle
luci dai lucenti lampioni,/schizza e saltella e rade la strada il gioco del pallone dei
ricordi,/l’attraversa il vento.
***
Me piasaríss de mí desmentegâss
da “Lünn” (1982) di FRANCO LOI
Me piasaríss de mí desmentegâss,
e camenà, e respirà per tí,
vèss cume i fjö che quand je branca el sû
se làssen sumenà due el vör lü,
e mai truâss, e pü capí de mí,
ma vèss giuius de l’aria che me tira

due che la vita la se pensa vîv.
Mi piacerebbe di me dimenticarmi
da “Lünn” (1982)

Mi piacerebbe di me dimenticarmi,e camminare, e respirare per te,/essere come i ragazzi che
quando li prende il sole /si lasciano seminare dove lui vuole,/e mai ritrovarsi, e non più capire di me
stesso,/ma essere gioioso dell’aria che mi attira /là dove la vita si pensa vivere.

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