Avezzano 1915, lo speciale

13 gennaio 1915, il terremoto di Avezzano: 30mila vite spezzate in una Marsica devastata

106 anni fa Avezzano e la Marsica furono svegliati da un terremoto distruttivo. 30mila vittime, 250 paesi colpiti. Morte, distruzione e briciole di speranza portate da nuove vite venute alle luce tra le macerie. E sotto la neve, arrivata ben prima dei soccorsi.

106 anni sono tanti, non abbastanza, però, per dimenticare l’apocalisse in cui si svegliarono Avezzano e la Marsica, il 13 gennaio 1915.

Due sguardi dietro il terremoto. Giovanbattista Pitoni, geometra e storico di Avezzano, ricostruisce quei momenti, fatti di polveri, di case sbriciolate, di urla disperate e di neve, tanta neve, arrivata ad avvolgere un “paesotto” – tale era Avezzano nel 1915 – che nutriva il sogno di diventare città. Ma che si ritrovò da un giorno all’altro a ripartire dal nulla, perché quasi nulla si salvò da quella terribile scossa.

Due sguardi dietro quel terremoto che dilaniò Avezzano, allora, troviamo proprio Giovanbattista Pitoni, cresciuto con i racconti di suo papà Antonio e con una passione per la storia, che ha coltivato negli anni.

Quei racconti, nel tempo, sono diventati ricerca, studio, scoperta. Sono diventati la missione di chi ha voluto riportare alla luce storie dalle macerie di una città scomparsa quasi in un attimo, rubato a una fredda giornata d’inverno.

“Se penso al terremoto di Avezzano, la prima parola che mi viene in mente è disastro. Non saprei definire altrimenti la forza distruttiva di un evento sismico che uccise, solo in città, 10mila vite. I numeri danno il senso del dramma: Avezzano prima del 13 gennaio aveva 13mila abitanti, al terremoto sopravvissero appena 3mila persone. E chi si salvò non era in città: c’era chi studiava fuori, chi era soldato e si trovava lontano…Si piansero in totale oltre 30mila morti, non solo nel territorio marsicano ma anche fuori dai confini della Marsica. Ad esempio la città di Sora, al confine tra Lazio e Abruzzo, fu disastrata. Anche L’Aquila subì danni importanti. Il sisma interessò circa 250 comuni“.

In piedi rimase soltanto un edificio, nell’attuale via Garibaldi, in pieno centro.

“Il suo proprietario e costruttore, Cesare Palazzi, anni prima era stato a Milano, dove aveva imparato ad utilizzare il cemento. A quei tempi non si utilizzava il cemento che conosciamo oggi, ma una miscela di malta e calce. Costruì, quindi, quella casa in blocchi di cemento, in quella che allora era denominata Via della Stazione, oggi Via Garibaldi. Questi blocchi di cemento, se inseriti in un muro di spessore adeguato, hanno una buona resistenza. E così è stato, nonostante non si trattasse ancora di cemento armato”.

La Avezzano su cui si abbatté il terremoto non era quella che oggi conosciamo tutti: era in realtà “un grosso paesotto di montagna. Aveva una cinta muraria che poi fu demolita negli anni del colera poiché si temeva che la malattia fosse causata dai liquami delle acque che non riuscivano a defluire al di fuori del centro abitato, proprio a causa della cinta muraria. Era un abitato costituito da vicoli stretti. Aveva sicuramente la sua importanza, ma non come quella che ha assunto in seguito all’evento sismico”, spiega ancora Giovanbattista Pitoni.

Fino ad allora il vero centro importante nella Marsica era Pescina, sede a quei tempi del Vescovado. Solo dopo il sisma, il Vescovo Pietro Bagnoli portò il Vescovado ad Avezzano.

Avezzano fu squassata pochi minuti prima delle 8 del mattino.

Il sonno interrotto dalla terra che tremava, i tetti crollati sulle teste di grandi e piccoli, una luce del giorno entrata solo dagli squarci di ogni singola abitazione danneggiata. Intorno solo buio, prima della luce, accecante, della neve. Arrivata a rendere ancor più complicati i soccorsi.

Con la neve arrivò anche l’esercito, ma solo 48 ore dopo l’evento tellurico. 

“I soldati giunsero per dare man forte alle operazioni di soccorso e mettere in salvo i pochi sopravvissuti. Allestirono un accampamento vicino alla stazione. Una zona, a quei tempi, pressoché disabitata. Non è un caso se proprio lì e nei dintorni della zona, da quelle numerose baracche, si sviluppò, in seguito, il centro di Avezzano – continua lo storico Pitoni ascoltato dalla redazione del Capoluogo – Fu costruita, poi, una strada, chiamata via Diagonale, che portava direttamente dal Municipio (non quello esistente) alla stazione. Era chiamata in questo modo poiché era l’unica strada non perpendicolare nella struttura della rete viaria della città”. I primi cambiamenti, post sisma, che portarono Avezzano ad assumere le fattezze della città moderna a tutti nota.

Ma torniamo a quel 13 gennaio.

Tra i principali problemi che ritardarono l’arrivo dei soccorsi, infatti, c’era proprio quello delle strade. Era solo il 1915. Avezzano, gli avezzanesi e i marsicani si ritrovarono isolati. Soprattutto si ritrovarono soli.

Se l’esercito arrivò dopo due giorni dall’evento, sarebbe sbagliato raccontare che Avezzano e la Marsica poterono contare sull’aiuto dei comuni vicini. Il terremoto, infatti, aveva colpito tutti, chi più chi meno. Ognuno si trovava a raccogliere i pezzi della sua tragedia. Famiglie distrutte, paesi fantasma.

“Molti paesi furono raggiunti dopo oltre un mese dal terremoto, come Pagliara di Castellafiume. Non c’erano le vie di comunicazione che ci sono oggi e mettersi in viaggio per raggiungere la Marsica non era affatto semplice. Le 48 ore che seguirono il terremoto di Avezzano del 1915 furono una tragedia nella tragedia, che nessun libro di storia può rendere nella sua interezza”.

Avezzano secondo Pitoni, dai racconti di un papà sopravvissuto

Passò solo qualche ora dal terremoto prima che iniziasse a cadere la neve. Dopo la condanna arrivata dalla terra, un’altra sembrò arrivare direttamente dal cielo. “I pochi sopravvissuti si ritrovarono vittime del freddo, circondati dalla neve e senza più niente. Non avevano neanche di che mangiare. Mio padre mi raccontava che per 3/4 giorni si sfamarono mangiando soltanto mele“.

Perché proprio mele? 

“Vicino la stazione vi era un grosso deposito di mele, che venivano raccolte nei campi dei territori vicini e venivano immagazzinate nei pressi della stazione ferroviaria, per poi essere caricate e trasportate via treno a Roma. Essendo a conoscenza di ciò, alcuni sopravvissuti arrivarono in stazione, scavarono a mani nude tra le macerie e trovarono numerose cassette di mele. Così, per 4 giorni, sopravvissero mangiando solo ed esclusivamente quelle“.

Antonio Pitoni, la fonte di questi racconti, non fu soltanto un sopravvissuto, ma fu il primo storico di un evento che ha scritto la storia di un territorio, non solo di una città.

Suoi alcuni dei versi dialettali più celebri scritti sul drammatico terremoto di Avezzano.

Mamma dicette: “Arrizzate ch’é ora,
leste, sse fà tarde pe’ lla scola”.
I’ senza famme dì più ‘na parola
me vestitte; ma, me recorde ancora,

m’eva date ‘ne mucciche de pane
ch’i me stev’a magnà senz’appetite,
ché me sentiv’ancora ‘nzunnulite,
quante sentemme, comme da lontane,

‘ne rumore che ppò fù spaventuse
e che fice trettecà la casa:
mamma capitt’ e più che persuasa
fice ‘ne strille propia tormentuse.

“Je tarramute, curre, fijie bejie!”
me fice la bonarma benedetta;
ma ne’ mme vinn’a tempe. La casetta
crullette, ch’eva propia ‘ne fraggejie.

I’ ‘ne mme fice gnente, mamma; tu
te lamentive sott’alla macera,
me respunnive, ma. … verze la sera,
diciste: “Oddie!” e nen parliste più!

Avezzano 1913, l’incrollabile speranza

È proprio, tuttavia, tra i brandelli di una città trafitta che si registrarono momenti di nuova speranza. L’unico sentimento che il terremoto non era riuscito a spazzare via. Almeno non completamente.

Furono momenti che spezzarono il silenzio surreale di una città spenta. Quelli di nuove vite nate anche sotto le macerie.

In mezzo a una Marsica distrutta si muoveva, ad esempio, l’ostetrica Maria Pacifici, di Paganica. Rimasta vedova a soli 26 anni, Maria aveva chiesto di poter lavorare e le fu offerto un posto nel Comune di Lecce nei Marsi. 

Tra Lecce e i paesi limitrofi Maria – insignita della medaglia d’oro nel 1961 – si mosse per aiutare le donne colpite dal sisma a dare alla luce i propri figli. Proprio quel maledetto 13 gennaio, quando la terra continuava a tremare dopo la prima terribile scossa, Maria vide a terra una donna che già conosceva, perché incinta al 9° mese di gravidanza. La donna era morta da poco, una delle 30mila vittime di un sisma assassino. Con lei era morto anche suo marito. Maria Pacifici riuscì a far nascere due gemelli. I piccoli, negli anni successivi al terremoto, furono accuditi dalla stessa ostetrica e dai vicini di casa, per tutto il tempo che poterono; poi furono affidati all’Orfanotrofio di Amatrice. 

Non furono solo due le vite nate da tanta distruzione. Gli annali di storia raccontano anche di Fortunata, una bambina venuta alla luce da una mamma coraggiosa, proprio tra le macerie. Madre e figlia, qualche tempo dopo, raggiunsero Roma: Fortunata fu ricoverata in ospedale per alcuni problemi di salute. A farle visita arrivò la Regina Elena, che regalò 500 lire alla bambina, facendole da madrina di Battesimo.

Terremoto di Avezzano e Sant’Emidio

E 106 anni dopo i racconti di quei giorni sono stati tramandati proprio a Giovanbattista Pitoni, una delle pochissime memorie storiche di una città che porterà sempre con sé i segni di una lunghissima rinascita. Dopo il terremoto, del resto, ci fu la Grande Guerra, o Prima Guerra Mondiale. Poi la pandemia di spagnola. Un’emergenza dopo l’altra su una città che si stava rimettendo in piedi.

“Tra i luoghi distrutti, anche le due Chiese presenti a quel tempo. La Chiesa di San Bartolomeo e la Chiesa di San Giovanni, che fu poi ricostruita. Nel caso della Chiesa di San Giovanni si raccontava che a rimanere in piedi fu soltanto il busto di Sant’Emidio. Allora un cittadino che entrò in chiesa, disperato, vedendo la statua esclamò ‘Ah! Te si salvat sol tu’; colpendo il mezzo busto con una spallata e facendolo cadere a terra. La statua, però fu recuperata da quella che, impropriamente per quei tempi, possiamo chiamare la Protezione civile della città. Portata dinanzi alla stazione fu, in seguito, caricata su un vagone e trasportata nella capitale, per essere custodita. La Domenica del Corriere di allora riportò una fotografia del busto di Sant’Emidio caricato su un vagone alla stazione di Avezzano”.

Avezzano ricorderà oggi chi perse la vita quel 13 gennaio di 106 anni fa, con una cerimonia religiosa e una commemorazione al Memorial delle Vittime del Sisma. Un triste anniversario silenzioso e contenuto, nel rispetto delle normative Covid 19.

Un’altra emergenza, questa, chiamata ad affrontare dalla sua gente, un secolo dopo. Altre pagine di storia che un giorno saremo proprio noi a raccontare, da una città ricostruita, nuova, che ha saputo trovare la forza di diventare, nel tempo, il cuore pulsante della Marsica intera.

 

Giovanbattista Pitoni

Nato nel 1942, è residente ad Avezzano. Diplomato con il titolo di Geometra, ha ricoperto numerosi incarichi nel corso della sua carriera, al Comune di Avezzano, all’Ufficio Demanio e Patrimonio della Regione Abruzzo, al Ministero degli Interni, al Genio Civile di Avezzano. In pensione dal 2002. In passato consigliere comunale e vice sindaco di Avezzano. Con la passione per la storia e per la scrittura, ha pubblicato molte opere e lavori editoriali, in ultimo Storia di Avezzano attraverso i manifesti, nel dicembre 2019.

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