L’Aquila 26 febbraio 1971: 50 anni fa la rivoluzziò de ju capoluogo

Moti per L’Aquila capoluogo: 50 anni fa la rivolta del popolo. I ricordi, l’analisi e le cause della rivoluzziò: “Piazza Duomo era diventata come l’assalto di Forte Apache”.
Questa la testimonianza di Gianfranco Picella, all’epoca giovanissimo testimone d’eccezione dei moti per L’Aquila capoluogo.
Picella rievoca i tre giorni di battaglie, iniziati proprio il 26 febbraio di 50 anni fa.
Una data che, per chi c’era, non può essere dimenticata: al pari del terremoto del 6 aprile 2009.
Il 26 febbraio del 1971 la città fu messa a ferro e fuoco dagli stessi aquilani, con sedi di partito date alle fiamme (dal Pci alla Dc), abitazioni di uomini politici messe a soqquadro, porte dei negozi date alle fiamme, pompe di benzina rovesciate, scontri con migliaia di uomini delle forze dell’ordine, feriti, arresti.
Il ricordo è nitido nelle parole di Picella, oggi 64enne:
Tanti i ricordi anche per i bambini del tempo che abitavano in centro storico: per loro i moti del ’71 rappresentarono un qualcosa di misterioso e allo stesso tempo eccitante.
Uno di quei bambini, ora adulto, ripercorre con il Capoluogo quelle ore: “Abitavamo nei pressi di San Marciano e si sentiva un frastuono incredibile. Le mamme non ci fecero uscire, perchè c’era tanta paura, dalla finestre e dai balconi assistemmo a quel brulichio, sentimmo le grida e le urla dei ‘rivoluzionari’. Noi, che all’epoca avevamo ancora l’innocenza data dalla giovane età, non capimmo fino in fondo cosa stesse accadendo: era qualcosa di più grande di noi, ma che non ci spaventava”.
Moti per L’Aquila capoluogo: 50 anni fa la rivolta del popolo, i ricordi e l’analisi di Fulgenzio Ciccozzi
Quello che accadde all’Aquila nel 1971, anno in cui si sanciva la scelta del capoluogo di Regione, fu la conseguenza delle due contrapposte anime che caratterizzavano e caratterizzano l’Abruzzo la cui diversità è insita nel nome che può essere declinato anche al plurale: Abruzzi.
Proviamo ad analizzare il contesto socio economico in cui venne a trovarsi L’Aquila in quel periodo. Nel novembre del 1968 iniziarono i lavori per la costruzione del traforo del Gran Sasso la cui apertura venne poi tenuta a battesimo nel 1984 dall’allora primo ministro Bettino Craxi.
Il 12 dicembre del 1970 fu inaugurata l’Autostrada Roma-L’Aquila ed erano gli anni in cui la Sit Siemens si apprestava a diventare una delle fabbriche più imponenti del Meridione. Ma gli effetti di queste importanti iniziative si sarebbero visti solo dopo qualche anno.
Infatti, dal 1961 a 1971 la popolazione della città continuò a decrescere. Purtroppo le attività del terziario non riuscirono ad assorbire il massiccio esodo dei lavoratori che interessò le campagne e diede il via a un movimento migratorio che spinse la gente a cercare occupazione in nord Italia o all’estero.
Diversa sorte subì la fascia costiera, soprattutto l’hinterland Pescarese, che ebbe un incremento di popolazione poiché risultava essere l’unico polo economicamente più attivo della Regione, sostenuto dall’imponente sostegno delle infrastrutture di trasporto (ferrovia, porti, strade).
In tale contesto, il 7 giugno del 1970, i cittadini abruzzesi vennero chiamati alle urne per esprimere il voto con il fine di eleggere per la prima volta i consiglieri che avrebbero guidato la Regione Abruzzo. Nel 1949 ci fu il primo tentativo di attuare la Costituzione con la creazione delle regioni.

Il ministro Scelba mise a punto un disegno di legge in cui veniva indicato il nome del capoluogo di ogni regione, le uniche prive di tale indicazione erano L’Abruzzo e la Calabria.
La legge venne poi promulgata nel 1953. Ma torniamo alle elezioni della primavera del 1970. Gli eletti, oltre che guidare il nuovo Ente, avrebbero avuto l’arduo e importantissimo compito di elaborare e approvare lo Statuto che includeva la scelta del capoluogo.
La DC raggiunse il 48,3% dei consensi, il PCI il 22,80%, il restante consenso fu ottenuto dagli altri partiti la cui componente più consistente era costituita dal blocco socialista. Era evidente che la Dc e il PCI avrebbero avuto un ruolo di primo piano nelle scelte da adottare per mettere a punto lo Statuto.
Il partito comunista pareva assumere una posizione più coesa la quale prevedeva che la scelta del capoluogo sarebbe ricaduta su L’Aquila, senza però poter ignorare le esigenze di Pescara, una città con un modesto passato ma assetata di futuro. La DC invece, pure ritenendo che il capoluogo non poteva essere che L’Aquila aveva posizioni più ballerine.
Insomma, in entrambi i casi, si delineava che L’Aquila sarebbe stata un capoluogo sulla carta ma di fatto ridimensionato. Il 26 febbraio del 1971 si riunirono all’Aquila i quaranta consiglieri regionali per votare lo Statuto che alla lettura del presidente Emilio Mattucci indicava come Capoluogo e sede degli organi della Regione è la città dell’Aquila e che La Giunta si organizza in dipartimenti aventi sede con i propri uffici a L’Aquila con 3 componenti per gli affari generali e l’organizzazione regionale, a Pescara con 7 componenti per gli affari economici e settoriali, specificando erroneamente che “il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L’Aquila e a Pescara”, e non o a Pescara.
Quella congiunzione che avrebbe messo entrambe le città sullo stesso piano, apposto di una disgiunzione, intesa come luogo di riunione Pescara come extrema ratio, faceva apparire il quadro molto incerto.
Questo errore di lettura diede il via alle prime proteste con il lancio di monetine da parte dei cittadini convenuti in massa.
Inoltre, la distribuzione degli assessorati tra L’Aquila e Pescara non piaceva, poiché si capiva sin da subito che L’Aquila avrebbe dovuto cedere competenze (e che competenze) alla città adriatica Lo Statuto venne approvato con votazione pressoché unanime: 38 sì (tutti i partiti), tranne uno assente (PSI) e uno contrario (MSI). Sabato, 27 febbraio all’Aquila era una giornata particolarmente fredda.
Quel giorno, la sera, trasmettevano la finale del Festival di Sanremo che sarebbe stato vinto da Nicola di Bari con la canzone “Il cuore è uno zingaro”. Ironia della sorte! Ore 4,00 del mattino, era da poco terminato il consiglio regionale, i primi gruppi di rivoltosi iniziarono a formare le barricate per chiudere le strade di accesso alla città. Ai Quattro Cantoni vennero ammassati e dati alle fiamme copertoni per inibire il traffico nel cuore della stessa. Alle 6,00 iniziò a divulgarsi la notizia di uno sciopero generale: restarono aperte solo le chiese e le farmacie.
Per le vie della città i clacson delle auto e i rintocchi delle campane delle chiese annunciavano la movimentazione generale. Alle 9,00 iniziarono le devastazioni. Si assaltarono le sedi della DC, PLI, PSDI. Alle 9,40, migliaia di persone si riversarono a piazza Palazzo e iniziò l’assedio alla federazione del Partito Comunista dove erano rinchiusi un centinaio di funzionari e iscritti, i quali, con la mediazione del Questore, vennero lasciati uscire incolumi. I rivoltosi occuparono, devastarono e incendiarono la sede del partito.

Alle 10,00 il sindaco Tullio De Rubeis comunicò che l’intera amministrazione si era dimessa (anche la giunta provinciale si dimise) lasciando la città senza governo, in balia di se stessa, proprio in piena sommossa, terminata la quale la Giunta rientrò in carica.
Una mossa francamente incomprensibile oltre che irresponsabile. Alle ore 16,00 venne assaltata, devastata e incendiata l’abitazione del segretario democristiano Luciano Fabiani. Sempre nel pomeriggio ci furono tentativi di assaltare le abitazioni dei consiglieri regionali Brini del PCI (il quale venne minacciato anche con lettere minatorie), Merli della DC e del sottosegretario agli Interni l’onorevole del PSI Nello Mariani.
In Corso Federico e in Corso Vittorio Emanuele la situazione si apprestava a diventare incontenibile. Già erano stati chiamati in soccorso i celerini da Roma.
Pervennero all’ospedale San Salvatore le prime richieste di soccorso. I contestatori provarono ad assaltare la Questura, senza esito. Poi la Prefettura diventò il centro delle contestazioni: bombe molotov, sanpietrini, lacrimogeni accesero lo scontro tra i rivoltosi e le forze dell’ordine. Alle 20,30 i contestatori incendiarono il distributore di benzina a piazza Duomo, poi si riversarono al negozio di Monti (un industriale di Pescara), anch’esso venne distrutto e dato alle fiamme, i vestiti furono gettati e sparpagliati per strada. Lo scontro andò scemando intorno alle 21,00.
Questo fu il primo bilancio di una contestazione popolare, perché tale era, anche se includeva piccole frange esterne, in cui il buonsenso aveva lasciato il posto alla violenza. Si volle attribuire a questi moti una matrice fascista, invece fu una rivolta di popolo come sostenuto dai manifesti che uscirono i giorni successivi in cui L’Aquila si dichiarava antifascista e che la città “ha respinto con sdegno le manovre frontiste che, ai fini della polemica contro il Governo, intendono imprimere un marchio fascista sulla fisionomia della città”.
Delle contestazioni, che proseguirono fino alla giornata di lunedì, se ne occuparono tutti media nazionali. In definitiva, la legge 480 del 22.07.1971 inerente allo Statuto venne approvata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale di fine luglio senza che le proteste degli aquilani riuscirono a cambiarne il contenuto.
Insomma fu dato un colpo al cerchio e una alla botte che soddisfece solo parzialmente l’esigenze delle due città, soprattutto dell’Aquila la quale, nonostante gli fosse stato riconosciuto il ruolo di capoluogo, doveva comunque fare i conti con una Pescara in forte crescita la quale, pur avendo la consapevolezza di non poter assurgere a quella posizione, chiedeva di avere voce in capitolo al fine di determinare le politiche economiche e il futuro di questa Regione.

In verità, il ruolo dell’Aquila come capoluogo non fu mai messo davvero in discussione, ma la città avrebbe dovuto svolgerlo accettando il ruolo comprimaria. Ed era quello che gli aquilani temevano.
Temevano veder minacciato il loro futuro. Questa, se vogliamo, è la storia delle due anime degli “Abruzzi”: una ben rappresentata da L’Aquila la quale ha una vocazione nel terziario e l’altra, Pescara, a inclinazione commerciale e industriale, che ha i propri interessi verso l’Adriatico (e questo l’ex presidente di Regione lo aveva ben capito spingendo a suo tempo per la creazione di una regione macroadriatica in cui Pescava poteva diventarne il centro propulsore, mentre L’Aquila, in quel contesto, avrebbe avuto un ruolo senz’altro marginale).
Non solo la fascia costiera rientra nell’interesse della città dannunziana però, e questo l’amministrazione pescarese lo tiene bene in mente e, aggiungo, avvedutamente, considerando l’importanza che riveste la capitale d’Italia (il potenziamento della linea ferroviaria con la stessa ne è una tangibile dimostrazione).
L’Aquila città d’arte, città storica, città di tradizioni, città di cultura dovrà aprirsi sempre di più per agguantare il suo futuro il quale non potrà che prescindere dallo storico legame che ha con Roma portando avanti un progetto di sviluppo, flebilmente auspicato in passato e mai portato a compimento, che negli ultimi tempi non è stato degno nemmeno di considerazione (i sindaci Raggi e Biondi che io sappia non hanno avuto alcun incontro di rilievo in questa legislatura).
Forse per guardare avanti bisogna volgere lo sguardo indietro e auspicare che figure di rilievo, come lo furono a suo tempo Lorenzo Natali, Vincenzo Rivera, Nino Carloni (solo per citarne alcuni), riescano a emergere per far sì che il capoluogo abruzzese possa agganciare quel treno che lo conduca verso mete degne del suo passato.
Moti aquilani: Capezzali, matrice fascista? Accusa di comodo
“Alla fine nessun aquilano è stato mai inquisito, come non lo sono stato io in qualità di direttore dell’unico settimanale aquilano del tempo, ‘L’Aquilasette’ che si contrapponeva alla Gazzetta di Pescara”.
A sostenerlo, come riporta l’Ansa, è l’ex direttore della Biblioteca Provinciale ‘Tommasi’ dell’Aquila, storico, giornalista, saggista e presidente per 27 anni della Deputazione di Storia Patria Abruzzo, Walter Capezzali, 81 anni, che rievoca i fatti di 50 anni fa: nella notte tra il 26 e il 27 febbraio scoppiò all’Aquila una rivolta per salvaguardare i privilegi del capoluogo di regione.
A causare i moti fu il compromesso tra Dc e Pci sull’articolo 2 dello Statuto della Regione: fu annunciata la possibilità di tenere le riunioni di Giunta e Consiglio regionale anche a Pescara, e ci fu la spartizione degli assessorati, con il centro adriatico che ne ebbe sette, importanti a livello economico e amministrativo, mentre all’Aquila ne vennero affidati tre di minore importanza.
“Il discorso al quale dovemmo reagire – ricorda Capezzali -, ricevendo tra l’altro piena attestazione della giustizia di quello che sostenevamo, è quello di evitare che la scelta per giustificare il baratto, chiamiamolo così, del capoluogo – quando L’Aquila era chiaramente una vittima predestinata dal punto di vista politico – venisse giustificata parlando di una manovra fascista”.
Quelli che avevano provocato i moti “per difendersi dovevano dire che per esempio ‘L’Aquilasette’ era un giornale fascista: era invece un giornale sul quale scrivevano tutti i colori della città e firmarono tutti i maggiori esponenti della cultura e dell’economia cittadina di quel periodo. Quindi era proprio perché non si sapeva che cosa di diverso poter accampare per non giustificare la reazione cittadina. Anche la parvenza di iniziative pubbliche per determinare se fosse stata o non fosse stata una vicenda in cui pesava molto la situazione della Calabria su quello che è successo in Abruzzo: alla fine non c’è mai stata una iniziativa ufficiale che tentasse di individuare una responsabilità di carattere rivoluzionario fascista“.

“Il discorso della reazione finale è legato non tanto al perchè ci fossero ancora dei dubbi sul fatto che L’Aquila era capoluogo di regione inamovibile come titolo, ma che quel titolo venisse svuotato di gran parte del suo valore”.
Secondo Walter Capezzali, “non si può parlare dei moti dell’Aquila come di un evento rivoluzionario, a parte che non sarebbe stata una rivoluzione, era una rivoluzione difensiva che si poteva pure giustificare, ma non fu una rivoluzione immotivata soprattutto per il fatto che in definitiva la situazione che l’Abruzzo viveva in quel momento era una situazione ben determinata come vocazioni territoriali: gli aquilani sostenevano e forse sostengono ancora che Pescara ha dei privilegi e delle caratteristiche di valore e di attività che non venivano inficiate assolutamente dal riconoscimento dei diritti di capoluogo di regione”.
“Tra le altre cose sono stati molti gli aquilani che hanno contribuito nella storia di Pescara a sviluppare l’aspetto dell’importanza della città adriatica. Il discorso che una città già carica di importanza prevalente a livello di economia regionale acquisisse pure la gestione degli assessorati più importanti proprio sotto il profilo economico sembrò effettivamente voler svuotare del tutto L’Aquila di un ruolo che si era guadagnata non soltanto per motivi storici, ma anche per le scelte dello Stato italiano”.
“L’assalto alle sedi dei partiti è uno dei motivi perché finirono a dire che erano stati dei moti fascisti: sono state attaccate e messe a fuoco tutte le sedi dei partiti cittadini meno quello del Msi. Ora la giustificazione ufficiale di qualcuno è stata che su 40 consiglieri regionali l’unico che aveva votato contro l’articolo 2 dello Statuto fosse quello del Msi, ma questa era una ipotesi da ridere. E la cosa si spiega facilmente: la sede del Msi si trovava in via Indipendenza, in un palazzo assolutamente inaccessibile, con un portone che non avrebbero aperto neanche con le cannonate, quindi pure se avessero voluto assaltarlo non avrebbero raggiunto alcun risultato positivo”.
Moti aquilani: Graziosi, lapsus diabolico scatenò finimondo
Fu una vocale, una ‘e’ al posto di una ‘o’, pronunciata erroneamente dal presidente del Consiglio Regionale abruzzese Emilio Mattucci nella seduta infuocata del 26 febbraio 1971, a scatenare la rabbia degli aquilani che diedero vita alla rivolta in difesa del capoluogo?
A rispondere all’interrogativo è un testimone oculare e cronista dell’epoca, responsabile della prima pagina dell’inserto de ‘Il Tempo’ d’Abruzzo, poi fondatore e capo Ufficio Stampa della Regione, Silvio Graziosi, 91 anni, giornalista professionista dal 1963.
“Trascorsero circa due anni – ricorda all’Ansa – per mettere a punto il testo dello Statuto della Regione Abruzzo. I passi più difficili riguardarono gli articoli 1 e 2: ‘L’Abruzzo è una Regione autonoma nell’unità politica della Repubblica italiana ed esercita i propri poteri e funzioni secondo i principi e nei limiti della Costituzione e secondo il presente Statuto.
Capoluogo e sede degli organi della Regione è la città dell’Aquila. Il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L’Aquila o a Pescara’. Una ‘o’ disgiuntiva che fu foriera di guai”.
“Lo spazio riservato al pubblico nella sala delle riunioni – prosegue – era, come in tutte le precedenti riunioni, stracolma di pubblico e di ‘campanilismo’: il presidente Mattucci annunciò che nella riunione dei capigruppo era stato approvato il testo dei tanto attesi articoli 1 e 2 dello Statuto regionale già predisposti per essere approvati dal Consiglio. Mattucci cominciò il più breve e celebre suo discorso nella storia della neonata Regione Abruzzo”.
“Io ero lì, seduto davanti al tavolo riservato ai giornalisti, da dove udivo persino il respiro affannoso dei consiglieri regionali – sottolinea Graziosi – consapevoli che di lì a poco, come in effetti avvenne, si sarebbe innescata quella miccia che per una notte e due giorni mise a ferro e fuoco L’Aquila con disordini che provocarono danni, feriti, arresti; le sedi della Dc e del Pci furono date alle fiamme, come pure le case di esponenti politici”.
“Grazie alla mia frequentazione assidua degli ambienti di Palazzo Centi, sede della Presidenza del Consiglio regionale – spiega -, ero venuto a conoscenza, da una indiscrezione che il presidente Mattucci aveva trascorso l’ultima settimana a preparare il discorso di circostanza. Lo aveva riletto cinque volte, rimarcando il punto dolente del capoluogo – l’articolo 2 – che era stato risolto dalle forze politiche con un compromesso che premiava L’Aquila, ma non scontentava Pescara, riservando alla città adriatica una sorta di ‘pari dignità'”.
“Quella sera del 26 febbraio 1971 Mattucci, nonostante le prove di lettura, incappò in un lapsus diabolico quanto nefasto. Al passaggio più atteso sbagliò una congiunzione fondamentale. Lesse: ‘Il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L’Aquila e a Pescara’ invece di leggere, come concordato dai capigruppo, ‘a L’Aquila o a Pescara’. Quel lapsus azzerava il primato dell’Aquila. Un cerino gettato sopra una montagna di polvere da sparo. Ad accenderlo, ci pensò ‘una correzione’: il lapsus del professore Mattucci (insegnante di lettere e filosofia, ndr) fu corretto dal consigliere e, anche lui professore, Francesco Benucci, noto ‘purista’ della lingua italiana”.

(l’assalto al negozio Monti, la cui “colpa” del titolare erano le origini pescaresi”.
“Nel tentativo di rimettere grammaticalmente le cose a posto, Benucci gridò, alla volta del presidente Mattucci, per tre volte: ‘o!’, ‘o!’, ‘o!’, che per una platea già nervosamente carica suonò come un incitamento alla ribellione. E nell’aula gremita da una folla mai vista, successe il finimondo con urla e lanci di monetine verso gli spazi occupati dai consiglieri. Fu il consigliere Federico Brini, comunista, a scagliare, con atto di rabbia, una bottiglia (contenente vino o acqua?) verso l’artistico lampadario centrale del salone. Come far uscire i consiglieri regionali dal Palazzo, quella notte, fu un’avventura. Finalmente la polizia scoprì la seconda e più sicura uscita in fondo a Via S. Michele”.