8 marzo 2021, altro che Festa della Donna: in 99mila sono rimaste senza lavoro causa Covid

8 marzo 2021 | 00:01
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8 marzo 2021, altro che Festa della Donna: in 99mila sono rimaste senza lavoro causa Covid

8 marzo 2021: sono le donne le più penalizzate dalla crisi legata alla pandemia. Viaggio tra gender pay gap e imprese che chiudono i battenti: altro che Festa della Donna.

Altro che festa: oggi 8 marzo 2021, giornata internazionale della donna, la seconda in epoca Covid19, è quanto mai utile mettere nero su bianco i numeri di una crisi economica e occupazionale che si ripercuote maggiormente sulle donne.

99mila donne senza lavoro contro 2mila uomini: il dato è eloquente, tanto più se si pensa che è ancora in vigore il blocco dei licenziamenti. 101mila i lavoratori che hanno perso il lavoro a dicembre 2020: di questi, pressoché la totalità è composta da donne. Una situazione certificata dai dati Istat, ma non solo: a misurare l’incredibile impatto della crisi economica da Covid sulle donne sono studi, ricerche e indagini internazionali.

E lì dove non si è perso il lavoro, si guadagna comunque di meno. Altro che Festa della Donna.

8 marzo 2021, gender pay gap: a che punto siamo

L’Italia è uno dei Paesi europei in cui è più accentuato il gender pay gap, ovvero la differenza salariale fra uomini e donne.

A sottolinearlo, nel suo discorso programmatico al Senato, il neo presidente del Consiglio Mario Draghi

L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro

“Superare la scelta tra famiglia e lavoro”: facile a dirsi, complicatissimo a farsi. Il 75% degli oneri familiari (dalle pulizie all’accompagnare i figli a scuola, solo per fare due esempi) è a carico delle donne. In Francia e in Germania è del 62%.

Stando ai dati Eurostat il pay gap in Italia è del 17,1% nel settore privato e del 3,2% nel pubblico.

A cosa è dovuta la differenza salariale? Alla presenza di donne in funzioni aziendali meno retribuite, con orari spesso ridotti. Ma lavorare meno ore a settimana significa portare uno stipendio inferiore a fine mese, non guadagnare meno soldi ogni ora. Il punto è questo: il divario salariale, calcolato ad orario, si nota in ogni ruolo, in ogni livello professionale (e peraltro, il part time è spesso una scelta obbligata, viste le carenza nel welfare pubblico).

La disparità di trattamento è evidente già a inizio carriera, tra le neolaureate. Con l’aumento dell’anzianità di servizio il gap si allarga soprattutto nelle posizioni di carriera più alte. Più la qualifica professionale è alta, più il divario si allarga. Un esempio: nel 2018 fra i cento manager più pagati d’Italia, solo quattro erano donne. Quattro su cento. 

Come si può agire per colmare il gender pay gap? La strategia dell’Ue per la parità di genere 2020-2025 punta sul risolverne le cause profonde:  dalla minor partecipazione femminile al mercato del lavoro al lavoro non retribuito, dai contratti più fragili alla segregazione verticale e orizzontale basata su stereotipi e discriminazioni di genere.

“La strategia europea persegue un duplice approccio” sottolinea Luisa Rosti su il Sole24Ore“Da un lato raccomanda l’integrazione della dimensione di genere in ogni azione politica programmata e in ogni fase della sua attuazione, e dall’altro raccomanda la pianificazione di azioni mirate e di interventi specifici finalizzati al raggiungimento della parità di genere. Tra gli obiettivi primari è da sottolineare l’adozione di misure vincolanti in materia di trasparenza salariale, perché la disponibilità di questi dati è necessaria per quantificare correttamente la componente discriminatoria del gender pay gap”.

8 marzo 2021, meno imprenditrici causa Covid: 4mila attività andate in fumo

A fine 2020 si registra un calo dello 0,29% delle imprese guidate da donne, per un totale di 4mila attività in meno rispetto al 2019. È quanto emerge dalle elaborazioni condotte dall’Ufficio Studi Confesercenti in occasione della Giornata Internazionale della Donna. Per l’imprenditoria femminile – finora cresciuta più velocemente di quella maschile – si tratta della prima battuta d’arresto in sei anni: la perdita – ascrivibile interamente alle regioni del Centro Nord (il Mezzogiorno segna infatti un +0,26%) – interrompe infatti una crescita costante dal 2014.
I dati di fine 2020, emerge dalle elaborazioni, mostrano che la gestione dell’emergenza sanitaria ha prodotto una battuta d’arresto soprattutto sulle imprenditrici giovani.Sono soprattutto le regioni del Centro che vedono ridurre la partecipazione femminile al mondo dell’impresa.
“La pandemia ha inferto una battuta d’arresto a tutto il Paese, cui l’imprenditoria femminile – nonostante la sua natura resiliente – non poteva sfuggire”, spiega la Responsabile nazionale di Impresa Donna Anna Maria Crispino. “Anche perché le difficoltà poste da lockdown e restrizioni nella dimensione familiare si sono scaricate principalmente sulle donne. Bisogna fare di più – conclude -, ripensando gli strumenti di sostegno e creandone di nuovi”.

8 marzo 2021, l’indagine Ipsos per We World: una donna su due si ritrova più povera

di Elisa Ricci

Shepoverty, è questo il termine inglese utilizzato in riferimento al problema della condizione della povertà femminile nella società: tema molto attuale in Italia e che si è accentuato dall’inizio della pandemia.
Secondo uno studio dell’Ipsos per We World, ente che si occupa da anni di diritti di donne e bambini in Italia e in altri paesi del mondo, le donne non occupate con figli, a partire dall’inizio del Covid, sono state le più penalizzate dal punto di vista economico (soprattutto per la fascia 25-34 anni).

Il 51 % di queste si sente ora più vincolata alla famiglia e al partner. 3 su 10 delle donne disoccupate con figli ora non cerca nemmeno lavoro.
Le donne, inoltre, sono impiegate nei settori che hanno toccato maggiormente la crisi (come quello dei servizi) e talvolta si trovano con contratti part time o che danno, comunque, poca sicurezza. Basti un dato: il part time delle donne in Italia è involontario in oltre il 60% dei casi. 

Inoltre, sono ancora le donne a svolgere i compiti riguardanti la cura della famiglia, elemento che è diventato ancora più presente nell’era Covid : il 38% delle donne (2 su 5) dichiara di farsi carico di persone non autonome come anziani e bambini. Di questi ultimi si occupa maggiormente la fascia più giovane di donne (25-34 anni), mentre i primi sono assistiti dalle più mature (45-54 anni).

Quello che pesa di più, ancora secondo Ipsos per We World, per le donne con figli tra i 31 e i 50 anni, è l’assistenza dei bambini e ragazzi per la didattica a distanza, che le vede private del tempo per poter fare altro.
Le conseguenze della pandemia si sono riversate anche a livello psicologico: il 76 % ha visto un dietrofront per quanto riguarda la realizzazione di progetti di vita e mentre donne più giovani (18-34 anni) segnalano un impatto negativo a livello di umore, la fascia più anziana ( 55-65 anni) riscontra maggiori problemi per quanto riguarda il fronte relazionale.