20 anni dopo

L’ultima visita alle Torri Gemelle: noi, aquilani, scampati per caso all’attentato dell’11 settembre

Giovanni e Graziella, aquilani, avevano pianificato di andare sulle Torri Gemelle l'11 settembre 2001: poi un caso, una coincidenza, ha voluto che ci andassero il giorno prima. Il racconto di quei giorni, le notti in aeroporto, il silenzio squarciato dalle sirene delle ambulanze. E quei volti, vuoti e senza espressione, così simili a quelli degli aquilani il 6 aprile 2009

Giovanni e Graziella, aquilani, avevano pianificato di andare sulle Torri Gemelle l’11 settembre 2001: poi un caso, una coincidenza, ha voluto che ci andassero il giorno prima. Il racconto di quei giorni, le notti in aeroporto, il silenzio squarciato dalle sirene delle ambulanze. E quei volti, vuoti e senza espressione, così simili a quelli degli aquilani il 6 aprile 2009

Un viaggio negli Stati Uniti come premio per la maturità: in ritardo di un anno, peraltro, rispetto ai piani. La Grande Mela pronta ad accogliere Giovanni, informatico neo diplomato e con una brillante carriera davanti, e sua zia Graziella. Sono aquilani, e nei primi giorni di settembre del 2001 erano a New York. Meno di ventiquattro ore prima dell’attentato, erano sulle Torri Gemelle: ma nei loro piani, sarebbero dovuti andarci proprio quell’11 settembre. Ancora una volta, come in migliaia di esperienze analoghe, il caso ha voluto che le cose andassero in maniera diversa.

20 anni dopo, il ricordo di quel viaggio, delle ore immediatamente precedenti e successive all’evento che sconvolse il mondo, è ancora vivo e vivido nelle parole di Graziella Mucciante che, ai microfoni del Capoluogo, ripercorre quello che ha vissuto nei giorni più difficili per il mondo intero, dal cuore della città ferita.

E con il senno di poi, Graziella racconta che il fumo e la polvere che si alzavano nel cielo di New York somigliavano incredibilmente al fumo e alla polvere del 6 aprile 2009, sopra Santa Maria Paganica. E i volti degli abitanti della Grande Mela, sconvolti, senza espressione, uguali a quelli degli aquilani.

“Per una di queste strane coincidenze, avevamo deciso di andare il 10 settembre in un museo molto caratteristico che si trova su un sottomarino dismesso al porto di New York: però quel 10 settembre era chiuso e, allora abbiamo deciso di andare il 10 alle Torri e l’11 al Museo. Ho una bellissima fotografia di quel giorno, non avrei mai creduto sarebbe stata una delle ultime visite alle Torri Gemelle”.

11 settembre: graziella mucciante torri gemelle

“Non credo alle coincidenze” dice Graziella “ma a me è successo. Erano le 9 di mattina dell’11 settembre 2001: io ero sveglia e a quell’ora accendevo sempre la tv per vedere che tempo faceva, per pianificare meglio le nostre attività. Stavo guardando in tv questa giornata che si presentava bellissima, con un cielo limpido, quando ho visto il primo aereo che si schiantava sulla Torre: ho chiamato Giovanni, che stava ancora dormendo. Mentre lo chiamavo, si è schiantato il secondo. Questo non è un caso, ho pensato: è un attentato”.

La reazione, di paura, impotenza ,e al tempo stesso, di lucidità: che facciamo?

“Ci siamo guardati, impauriti. Il nostro ritorno in Italia era fissato per il 12 settembre. “Intanto vestiamoci” ricordo di avergli detto. “Intanto prepariamoci”. Siamo scesi giù nella hall: ci sentivamo impotenti. In albergo avevano anche organizzato, come al solito, la colazione. La ragazza che serviva al nostro tavolo piangeva: non so se piangeva per lo choc, per la paura… non abbiamo neanche osato chiedere. Abbiamo fatto una rapida colazione e siamo andati fuori: volevamo renderci utili in qualche modo. Ci hanno detto che non era il caso: noi eravamo a Manhattan, nella 32′ strada. Da là si vedeva questa colonna di fumo nero, giù a downtown. Una cosa impressionante: ci sentivamo impotenti.
Un’altra cosa che non dimenticherò mai è il silenzio tombale: in una città che ti mette energia, soprattutto nella zona dei teatri, dove eravamo noi, non c’era un rumore. Ad un certo punto è iniziato il via vai di ambulanze: una fila lunghissima di ambulanze, a sirene spiegate. Siamo arrivati, pian piano, camminando al porto: lì abbiamo chiesto ai poliziotti che ci hanno detto di non arrivare a downtown per alcun motivo”

“Mi viene la pelle d’oca a ripensarci: il ricordo è talmente vivo, come se ci fosse stato ieri. Una cosa che ti stringeva il cuore: questo silenzio lacerato solamente dalle sirene delle amulanze”.

Chiaramente, Graziella e suo nipote non sono riusciti a ripartire il giorno dopo: anche perchè tutti i ponti per arrivare all’aeroporto internazionale Jfk erano chiusi.

“La notte dell’11 avevamo ancora l’albergo: abbiamo dormito lì. Dormito… si fa per dire! C’è stato un allarme nel cuore della notte all’Empire, alla 34′ strada. Ci siamo dovuti alzare, vestire e uscire: poi è rientrato l’allarme. La notte successiva abbiamo preso un’altra stanza e abbiamo dormito un’altra notte là. Nel frattempo, avevo chiamato il Consolato generale d’Italia a New York che ci ha suggerito di restare in albergo: era sicuramente la soluzione più sicura. Il giorno dopo siamo stati in albergo e nei dintorni ma era tutto chiuso, anche per mangiare è stato un problema. Immaginate tutta Manhattan senza un posto per andare a mangiare!
Il 12 ho richiamato il Consolato e ci hanno consigliato di raggiungere l’aeroporto appena si fossero riaperti i ponti anche perchè temevano che potessero avvelenare l’acqua”

“Non bevete l’acqua dei rubinetti, solo acqua minerale”.

13 settembre: l’aeroporto come “il deserto dei Tartari”

“La mattina del 13, guardando sempre la Cnn, ho capito che avevano riaperto un paio di ponti. L’albergo ha organizzato, rapidamente, una navetta e ci hanno portati al Jfk. Lì però c’era il deserto dei Tartari: non c’era nessuno” prosegue.
Terminal, banchi e gate vuoti, computer spenti, con l’aria condizionata, però, altissima: uno scenario surreale. Eravamo in tutto una quarantina di persone: al terminal 1 c’erano tutti italiani e un gruppo di coreani. Noi italiani non siamo stati abbandonati” riflette. “I funzionari del Consolato sono venuti, ci hanno assistito e portato da mangiare, così come la Croce Rossa americana che ci ha portato delle brandine e dei plaid, utilissimi con il freddo che c’era dentro all’aeroporto. I coreani non hanno avuto un briciolo di assistenza: dormivano sui tavolini del bar, chiaramente chiuso. Ci siamo lavati al bagno dell’aeroporto. Siamo stati sempre in contatto con Alitalia, ci portavano da mangiare. “Magari rispondete pure al telefono“, ci hanno detto. Sai, diventi amico di tutti… è stata una situazione talmente assurda che poi nascono anche questi tipi di collaborazione e solidarietà”.

Il pc sbloccato: si può comunicare.

È difficile pensare di non riuscire a comunicare a New York, seppure 20 anni fa. Oggi, perennemente connessi e con il Wifi ovunque, sarebbe impensabile non riuscire a chiamare casa o avvertire i parenti che si è vivi. Ma non è così.
“Giovanni è riuscito a far ripartire il pc di uno dei punti informativi e ha iniziato a mandare mail per altre persone, a fare telefonate. Ci si è aiutati gli uni con gli altri perchè non sapevamo come comunicare. Non c’erano i telefonini come ora e, soprattutto, ci voleva il quadriband per chiamare. Ero riuscita a chiamare casa un attimo l’11 settembre, dopo aver percorso tutta Manhattan in cerca di un telefono pubblico: erano tutti pieni, occupati” ricorda Graziella. “Dall’aeroporto, un signore americano, molto gentile, mi ha dato il suo telefono e ho chiamato casa, rassicurando tutti”.

“Il 15, finalmente, ci hanno fatto sapere che il giorno dopo sarebbero partiti due aerei, uno per Milano e uno per Roma. Lì, poi, ci sono stati anche dei momenti di tensione con un gruppo di turisti statunitensi che avevano prenotato le vacanze in Italia e volevano prendere il nostro aereo: ci siamo ribellati! E’ dovuta intervenire anche l’Ambasciata, ma poi tutto è tornato nella normalità e siamo riusciti a tornare in Italia”.

Poi, il ritorno alla vita normale, se così si può definire. Eppure, quel viaggio e quei ricordi restano indelebili soprattutto per quanto poi Graziella, da aquilana, avrebbe vissuto nel 2009.

“La notte del 2009, quando sono uscita di casa e ho visto la colonna in alto che a me sembrava fumo, ma era polvere, dietro Santa Maria Paganica, e tutto quel silenzio, mi è tornato in mente l’11 settembre. Le facce dei newyorkesi che circolavano e le facce degli aquilani quella notte erano uguali. Quelle facce che gli anglofoni chiamerebbero “blank”, senza espressione, vuote. La stessa sensazione. Non lo dimenticherò mai”.

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