Vajont, 58 anni dopo: quel filo rosso con L’Aquila

9 ottobre 2021 | 08:11
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Vajont, 58 anni dopo: quel filo rosso con L’Aquila

Nel 1963, il 9 ottobre, la tragedia del Vajont: morirono 2000 persone. A L’Aquila il processo: condanne più lievi di quelle richieste

Valle del Vajont. Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 oltre 270 milioni di metri cubi di roccia precipitarono nel bacino sottostante sollevando tre onde colossali, che travolsero e uccisero quasi duemila persone.

Vajont processo l'aquila

Il filo rosso che collega L’Aquila al Vajont è il filo della giustizia: si svolsero nel tribunale della nostra città sia il processo di primo grado sia l’Appello.

In quella terribile notte morirono oltre 2000 persone: due onde si schiantarono sulle pareti della vallata solcata dal Vajont. La terza strappò via la strada che coronava la diga e si scagliò a valle, verso Longarone.

Un’onda d’urto paragonabile a quella della bomba atomica sganciata su Hiroshima. Il disastro rase al suolo Erto e Casso, oltre alla maggior parte di Longarone. Le genti che le abitavano scomparvero nel nulla, inghiottiti dai flutti e dalle macerie.

Per uno scherzo del destino, mentre l’80% degli abitanti di Longarone e molte costruzioni della città stessa venivano spazzate via, la diga del Vajont rimane integra, ed è in piedi ancora oggi.

Vajont, il processo a L’Aquila

Per il Vajont fu aperta un’inchiesta giudiziaria, lunga anni e conclusa con pene più lievi di quelle richieste. Era il 29 ottobre del 1968 quando si apriva il processo proprio all’Aquila, dopo che la sede fu trasferita da Belluno per “legittima suspicione”: alla sbarra dirigenti, tecnici e consulenti. La prevedibilità della frana non venne riconosciuta.
Si parla di disastro annunciato, di errori umani che hanno portato alla strage: l’aver costruito la diga nella valle del Vajont, non idonea, l’aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza, il non aver dato l’allarme la sera del 9 ottobre per attivare l’evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.

Cooperazione in disastro colposo (sia di frana che di inondazione), omicidio e lesioni colpose plurime: questi alcuni dei capi d’accusa nel processo sulla frana del Vajont. Ad essere accusati sono alcuni dirigenti e consulenti della SADE e alcuni funzionari del Ministero dei lavori pubblici. Tutte le relazioni tecniche del caso dimostrano che la catastrofe era prevedibile.

Il Processo di Primo Grado si conclude il 17 dicembre del 1969. L’accusa chiede 21 anni per tutti gli imputati per disastro colposo di frana e disastro colposo d’inondazione, aggravati dalla previsione dell’evento e omicidi colposo plurimi aggravati. Biadene, Batini e Violin vengono condannati a sei anni, di cui due condonati, di reclusione per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero; assolti tutti gli altri. La prevedibilità della frana non viene riconosciuta.
Sei mesi dopo sempre all’Aquila il Processo d’Appello, con lo stralcio della posizione di Batini, gravemente ammalato di esaurimento nervoso.
Il 3 ottobre la sentenza riconosce la totale colpevolezza di Biadene – un dirigente della Sade – e Sensidoni – ispettore del Genio civile – che vengono riconosciuti colpevoli di frana, inondazione e degli omicidi e condannati a sei e a quattro anni e mezzo. Gli altri assolti.

La SADE era stata nel frattempo inglobata da ENEL e Montedison, che saranno condannate a risarcire i danni nel 1997.