Agostino Spezza e l’eccidio di Filetto, l’eternità della memoria

9 giugno 2022 | 09:35
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Agostino Spezza e l’eccidio di Filetto, l’eternità della memoria

Agostino Spezza e l’eccidio di Filetto: l’eternità della memoria a 78 anni dai tragici eventi.

Agostino Spezza e l’eccidio di Filetto: l’eternità della memoria a 78 anni dai tragici eventi.

“Temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la Storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite.” – Liliana Segre

Un’ombra evocata su un muro di dolore che guarda attraverso un cerchio verso il profilo del Gran Sasso. La scultura di un padre, di un marito, scura come notte d’estate, che si unisce con il suo grembo all’altra metà, a suo figlio, a sua moglie, una metà bianca come la memoria della pietra; un altro cerchio che sia apre sull’anima delle metà unite in eterno custodendo un cuore ancora puro, intatto, divino. Il monumento ai martiri di Filetto è lì, immobile al trascorrere dell’esistenza umana, sospeso nella dimensione di una memoria che non ha tempo, non ha spazio, ma che è incastonata nel cielo velato di Filetto.
Mercoledì 7 giugno 1944, circa settantotto anni fa, l’eccidio di Filetto compiuto dai nazisti macchiava di altro sangue il capitolo di storia più atroce del Novecento. Diciassette uomini furono fucilati dai nazisti, vittime innocenti che abitavano nel tranquillo paese di montagna con le loro mogli e i loro figli. Tra questi uomini, diventati martiri della Storia, c’era un contadino quarantaquattrenne, fratello della mia bisnonna Maria: il suo nome era Agostino Spezza.
La vita-sopravvivenza in un paese di montagna in quegli anni non consentiva certamente molti agi, ma forse, proprio per questo, i suoi abitanti cercavano di trovare spiragli di serenità nell’atmosfera bucolica aquilana. La bisnonna Maria viveva infatti giocosamente la sua infanzia e rideva ironicamente sbeffeggiando la difficile vita anche quando, in età adulta, tornava nel suo paese natale. Maria era molto legata a suo fratello Agostino, il quale, quasi in un’enigmatica traccia lasciata dal destino, assomigliava moltissimo al figlio primogenito di Maria, ovvero a mio nonno Angelo. Maria, dopo l’eccidio, ricordava suo fratello con molta tristezza e diceva sempre: “era beju Agostino, Angiolino gli somigliava”. Si racconta nella mia famiglia che Agostino era un uomo semplice e buono, al giorno d’oggi un tipo di persona dall’animo raro e prezioso. Era sposato con una bellissima donna, Antilla Santavicca, nata mercoledì 12 aprile 1899, mentre Agostino era di un anno più piccolo essendo nato domenica 28 gennaio 1900. Avevano un figlio, Alberico, nato nel 1929, un anno dopo la morte prematura della sorellina Rosina che aveva solo quattro mesi.

La foto di Antilla che tiene per mano il piccolo Alberico vestito da marinaretto, trasmette la commovente sensazione di un amore familiare perduto e infine dissanguato dalla follia nazista.

agostino spezza memoria

In guerra si sprigiona dall’uomo un demone, un ibrido, concepito dal più aggressivo istinto umano che si unisce alla razionalità, un virus incontrollabile in incubazione nell’indole umana. Il 7 giugno del 1944 i partigiani scesero a Filetto assalendo le truppe naziste, ormai in ritirata, causando la morte di un soldato e il ferimento di un altro. Il maresciallo Schafer allertò subito il comando nazista stanziato a Paganica, a Villa Dragonetti, che giunse a Filetto per iniziare la rappresaglia. Vengono fucilati i primi abitanti che si trovano sulla via di passaggio dei nazisti, così, senza neppure il tempo di rendersi conto di ciò che stava accadendo. Anche lo stesso maresciallo Schafer venne freddato da un suo commilitone per essersi opposto all’uccisione di un abitante di Filetto. La bisnonna Maria, che in quel tempo abitava a Paganica (proprio vicino a Villa Dragonetti) con suo marito e i suoi figli, raccontava che Agostino, quel 7 di giugno, era tornato a casa dalla campagna intorno alle 18. Antilla aveva preparato la cena e Agostino si era seduto per mangiare un piatto di minestra. Nel frattempo il capitano nazista Defregger, su mandato del generale Boelsen, fece radunare la popolazione selezionando una trentina di maschi adulti. I nazisti entrarono con violenza in casa di Agostino prelevandolo. Gli uomini presi dalle loro case furono portati nella zona dell’aia all’ingresso del paese e, una volta allontanati gli anziani e i minori, i quindici rimanenti furono disposti su tre file. Alberico, allora quindicenne, guardava suo padre da dietro una siepe. Intorno alle 22 il capitano ordinò l’esecuzione tramite mitragliatrice. Rimasero uccisi in nove, tra cui Agostino. Alcuni si finsero morti, mentre altri superstiti tentarono di fuggire per le vie del paese; nella caccia all’uomo che seguì, cinque persone furono catturate e uccise. I nazisti fecero un mucchio con i corpi delle vittime nelle abitazioni delle famiglie Zinobile e Massari per poi dare fuoco a tutto. Si racconta che un superstite, fingendosi morto, si salvò casualmente poiché, mentre un soldato nazista lo stava sollevando dalla cinta per buttarlo sopra gli altri corpi, la cinghia si ruppe facendolo cadere a terra; il soldato, per non perdere tempo, diede un calcio al corpo con disprezzo e il superstite si salvò. Altre scene terribili segnarono i bambini, le mogli e gli anziani presenti che videro i loro cari trapassati dai proiettili. Alberico stesso ne restò traumatizzato come del resto Antilla, la quale, dopo la tragedia, era sempre malata per la pena. Morì qualche anno dopo quando suo figlio aveva 19 anni, mentre trebbiavano. Alberico ebbe anch’esso una vita difficile: andò in Venezuela da suo zio, tornò successivamente a L’Aquila per poi andarsene di nuovo, solitario e senza mai sposarsi; fu ritrovato nel 1971 nei pressi di un fiume a Padova, senza vita.
Ci si dimentica spesso che i grandi eventi storici hanno in sé le vicende dolorose di persone come noi, di famiglie come le nostre, di paesi come quelli in cui viviamo la nostra quotidianità. I nazisti, “posseduti” dalla violenza bellico-ideologica, dalla vendetta e dal disprezzo nei confronti della vita di altri uomini, ritenuta razzialmente inferiore e quindi da sacrificare, riuscirono a seminare la loro “banalità del male” anche a Filetto, un paese che viveva indisturbato nella semplicità delle sue campagne e dei suoi pascoli.

Da settantotto anni la mia famiglia porta con sé la memoria di Agostino, non solo martire, ma parte di un martirio, di una memoria custodita nella sacralità montana. Con Agostino vive anche la memoria di Antilla e di Alberico, di quella famiglia lacerata ma trascesa in un dolore che è allo stesso tempo monito di vita.
Recandomi annualmente con mio padre presso il monumento ai martiri di Filetto per restare in silenzio a contemplarne la scultura e il cippo con i nomi di coloro che furono fucilati, lo scorso anno abbiamo conosciuto un’anziana signora che vive in paese e che ci ha raccontato di essere la figlia di uno dei martiri; lei era ancora molto piccola quando suo padre fu ucciso dai nazisti.
La vita e la storia continuano così a parlarci nel loro silenzio, ad offrirci incontri con persone che condividono nel ricordo uno stesso dolore, a darci altre possibilità, ad ispirarci per trovare la forza di lottare contro le ideologie perverse, i fascismi, i regimi, i totalitari “mondi nuovi”. “Dobbiamo fare meglio”, dice una frase ricorrente nella serie “The 100”; sembra una retorica utopia, sì, soprattutto nel periodo storico attuale devastato da simili atrocità belliche, ma dobbiamo farlo perché è un dovere come uomini dotati di umanità e di mezzi concreti per applicare questa umanità; per me un è dovere al fine di onorare responsabilmente la memoria di Agostino e di tutti i martiri di Filetto.

“In qualche altro mondo probabilmente è diverso. Meglio di così. Esisteranno chiare alternative tra bene e male.” – Philip K. Dick

Si ringrazia Maria Dorinda Petricca, nipote di Agostino Spezza, per l’accurata testimonianza e per le preziose informazioni generosamente fornite per la stesura di questo articolo