Le nuove stanze della poesia, La Commèdia de Dante tradotta da Franco Narducci

La Commèddia de Dande tradotta da Franco Narducci in “dialèttu aquilanu”per l’appuntamento con la rubrica a cura di Valter Marcone.
Domenica 16 ottobre 2022 nell’auditorium della Casa madre delle suore Ferrari a S. Gregorio Franco Narducci ha presentato la traduzione in dialetto aquilano della seconda cantica della Divina Commedia di Dante il Purgatorio, o meglio ‘Il Priatorio’.
Moderato dal fratello Mario Narducci, durante l’incontro hanno illustrato questo lavoro i professori Massimiliano Pasqualone e Valeria Valeri. Proprio Mario nel presentare questo lavoro ha detto testualmente : “Voglio sottolineare la tenacia di Franco; – ha detto il fratello Mario, giornalista, presentandolo – solo lui metodico com’è poteva riuscire nell’impresa. Un dialetto aquilano semplificato quello di Franco; la sua scrittura asseconda la fonetica senza aggiungere doppie inutili di difficile lettura.È il nostro dialetto, quello sabino di Santa Giusta; uno dei tanti dialetti sabini dell’Aquila ché qui sono tanti quanti sono i rioni. Con la sua scrittura, Franco riesce a dare sensazioni di dolcezza o durezza a seconda della materia trattata, e allora, il nostro dialetto che sembra molto aspro finisce a volte per essere di una dolcezza infinita. Inoltre la traduzione di Franco è fedele al testo. Non si tratta, tuttavia di una fedeltà pedissequa ma che si presta ad eccezioni laddove prevale il senso della frase perché impossibile da rendere in dialetto”.
Mario Narducci è giunto con questa traduzione del Purgatorio al secondo giro di boa. All’attivo già lo ‘Nfèrnu della Commèddia de Dande” che è stato dato alle stampe, edito dall’Istituto di Abruzzesistica e Dialettologia lo scorso anno. Fin dalla traduzione della prima cantica, l’autore, non ha inteso proporre soltanto la traduzione dell’opera, ma avvicinarla e renderla fruibile nel materno vernacolo, dandole il colore delle cose consuete, immediatamente comprensibili. E lo fa con incredibile naturalezza. Queste le sue parole.
“L’idea è nata per caso, per gioco quasi. Tutto è venuto fuori a seguito di una telefonata di una professoressa di Crotone, Pamela Presti, che fa parte di una Associazione Culturale, “MutaMenti”. Mi dice che stanno preparando una iniziativa per i 700 anni dalla morte di Dante: la traduzione di terzine della Commedia in tutti i dialetti italiani e mi chiede se voglio partecipare. Alla mia risposta positiva, mi ringrazia e… ma una terzina è un po’ poco, mi sta stretta. Mia moglie mi consiglia di tradurre il Padre Nostro che sta nel Purgatorio. Passa qualche giorno e mio fratello, ascoltata la traduzione del Padre Nostro, mi dice: – Ora devi tradurre la preghiera alla Vergine che sta nel Paradiso. Accetto la sfida. Il risultato non è male. La propongo alla professoressa. Benissimo! Ci facciamo la chiusura. Passa ancora qualche giorno e… mi provoco. Prova a tradurre tutta la Commedia!” Ecco dunque la ricostruzione ,fin dal nascere , di un lavoro importante perchè come affermato dal professor Massimiliano Pasqualone poche sono le traduzioni in dialetto abruzzese ricordando per esempio quella di De Meis .
“Dante abruzzese” pubblicato da Tabula Fati nel 2025 e curato da D’Alimonte è, come si legge sul risvolto “un esperimento assai originale, finora inedito, realizzato dal poeta di Rocca Pia, Vincenzo De Meis: una raccolta di cento sonetti in vernacolo ognuno dei quali ispirato da un canto della Divina Commedia dell’Alighieri. Si tratta di un’opera altamente originale e difficile da inquadrare nel genere; da un lato può essere definita come una sorta di traduzione della Divina Commedia visto che la trama, i personaggi, le vicende, partono sempre, di volta in volta, dal testo originale, dall’altra però la riduzione di un canto intero ad un sonetto, fa sì che il testo in vernacolo sia altra cosa rispetto a quello di partenza. È inoltre all’insegna del gioco e del divertimento che l’opera viene concepita; De Meis decide di compiere sostanzialmente una parodia della Divina Commedia, dei suoi personaggi e delle sue vicende. Un vero e proprio travestimento comico reso possibile anche grazie all’atteggiamento ora beffardo, ora ironico del poeta mentre guarda dall’alto le scene intervenendo con commenti, battute di spirito e quant’altro. Dunque un lavoro meritorio quello di Franco Narducci di cui si apetta dunque la conclusione con la traduzione del Paradiso che si inquadra in quel vasto panorama di traduzioni nei vari dialetti delle regione italiane. Tra le quali va ricordato anche il Giro d’Italia. La Divina Commedia nelle lingue e nei dialetti progetto di lettura dialettale della Commedia a cura di Giovanni Guerrieri(Compagnia Sacchi di Sabbia), Sandro Lombardi, Federico Tiezzi (Compagnia Lombardi-Tiezzi), con la collaborazione scientifica di Francesco Moros e Daniele Musto de Le Letture della Normale.
L’iniziativa è stata presentata, in occasione del settecentenario della morte di Dante , sulla Rai, a Radio3, nel programma “La lingua batte”, con una intervista a Francesco Morosi e Sandro Lombardi e i primi quattro spezzoni dialettali. Mentre su Radio 3 Suite sono andati in onda tutti i pezzi dialettali, con Giovanni Guerrieri che ha raccontato racconterà l’esperienza delle “Letture della Normale”, cui si ispirava questo giro d’Italia dantesco. Tutte le clip sono poi online sul sito di Radio3 e RaiPlayRadio.
In particolare per questa iniziativa di radio3, nello spirito delle Letture, che da sempre sono uno strumento di appropriazione popolare di grandi classici della nostra letteratura, attori e cittadini sono stati invitati a leggere piccoli brani del poema dantesco nel loro dialetto di appartenenza, in nome di un’unità nazionale e a rappresentanza della ricchezza linguistica che ancora esiste. Nel settimo centenario di Dante, il “Giro d’Italia” è stato un modo per riscoprire il nostro poema nazionale tramite passioni locali: come sempre all’insegna della pluralità di voci e di esperienze.
Per le letture le voci di attori e attrici che hanno prestato le loro voci all’incipit del poema sono state quelle di Sandro Lombardi, che ha letto le prime terzine della Commedia in italiano, Roberto Latini (romanesco), Paolo Pierobon (veneziano), Federica Fracassi (milanese) Elena Bucci (bolognese) Laura Curino (piemontese), Iaia Forte (napoletano) Monica Demuru (sardo), Licia Lanera (barese), Maurizio Lastrico (genovese), Sabrina Scuccimarra (abruzzese), Saverio Laruina (calabrese).
“A differenza delle traduzioni dialettali della Gerusalemme liberata e dell’Orlando Furioso, che furono assai precoci,scrive Dante Granatiero , quelle della Commedia di Dante Alighieri, nell’Italia settentrionale come in quella meridionale, con l’eccezione secentesca di Paolo Princi, cominciarono solo nell’Ottocento. Ciò è strettamente legato alla diversa fortuna della Commedia,il cui successo, già notevole nel Trecento, quando ebbe molti commentatori tra cui il Boccaccio, andrà scemando nei secoli successivi. Durante l’Umanesimo viene rivalutato il latino a danno del volgare. Nel Cinquecento, con Pietro Bembo, prevale il modello di stile poetico proprio del Petrarca. Il Seicento è del tutto refrattario alla profondità del messaggio dantesco, così come il secolo dei lumi, che giudica il Medioevo un periodo di buia superstizione, anche se non mancheranno le voci di estimatori come Giambattista Vico e Vittorio Alfieri”.
Lo studio di Dante Granatiero, che si può leggere on line fa dunque il punto della situazione su questa particolarità nel panorama degli studi della Divina Commedia che offre per così dire una intera biblioteca di approfondimenti .
Ma leggiamo proprio Franco Narducci e una parte del Canto sesto dell’Inferno a cui come per ognio canto premette un riassunto sempre in dialetto. Questo il riassunto:
Na pioggia che manna nu cattìu addóre, mmischiata a grandine
e nèe, tormènda j dannati deju terzu circhiu: jigulusi.
Nu cane có trecòcce, Cerbero, j‘a pìcciu sénza trègua. Come védde ji nostri, Cerbero coménza a fa’ judiaulu a quatto, ma Virgilio pija na manata de fangu, je lla jètta‘mmócca e quella penzènno solu allomagnà, se ‘a nacarmata.
Cundìnueno a caminà, passènno tra lofangu e le còcce‘eji dannati, quandu, all’assacresa, una de queste àneme e tira su, se mette assettata e ji fa, ‘ice: “Recunùscime se sci brau”. Ma, che tte ‘ó r cunusce?! La ficura è ccuscì deformata da llatribbolazzió, che è péaddaéru imbussìbbile. Allora ju dannatu ji ‘ice che issuè Ciacco. Pó ji ‘ice che Firenze, cóvu de òtiu e de ‘ngiustizzia, a breve, trionferà. E ji ‘ice pure che tandipulìtichi deju passatu stau scondènno ji peccatiaj’infèrnu.
Finitu de chiacchiarà, có n’espressió che ormai de umanu non tè cchiù gnènde, se nne recasca fra jicombagni sé.
Virgilio, a ‘stu pundu, recorda a Dande che, ajumoméndu ‘eju Ggiutìzziu Univerzale, Ciacco repijerà jucórpu sé, come tutti quandi j’atri e, dópu la resurrezziódella carne, le sofferenze aumenderrau.
Arriati aju pundu addó sta ju passaggiu pé ji daju terzuaju quartu circhiu, ji ddù ‘ngùndreno ju temòniu Pluto.
Questo un saggio delle prime terzine del canto:
Come rruprì la ménde che se chiuse
pé lla pietà de quiji ddù cognati
che, pé tristezza, assà ji me cunfuse,
nóvi tormendi e nóvi tormendati
me véto ‘ndurnu, cumungue me mòva,
come me vòto o com’ji só guardati.
Stèngo aju terzu circhiu, della piòva
eterna, mmaledetta, fredda e greve,
né regola o materia ècco è mai nòva.
Nuci de grandine, acqua sporca e nève,
violendemende quell’aria attraverza;
puzza la terra come ji riceve.
Cèrbero, bbèrva ria, all’atre divèrza,
có lle tre còcce ‘e cane, forte latra,
sópre alla ggènde che ècco sta sommerza.
Ócchi rusci, barbe unde, l’une e l’atra,
panza larga, có j’artiji le mani,
raschia ji spirti, ji spella e ji squatra.
La pioggia ji fa urlà péggiu ‘eji cani:
fecènno có nu fiangu aj’atru scutu,
reggirènnose invanu ji profani.