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Omicidio di Barisciano, Gianmarco Paolucci condannato a 15 anni di carcere

La Corte d'Assise ha condannato a 15 anni Gianmarco Paolucci per l'omicidio di Barisciano. Tutti gli aggiornamenti.

L’AQUILA – La Corte d’Assise ha condannato a 15 anni di carcere Gianmarco Paolucci per l’omicidio di Barisciano.

Omicidio di Barisciano, al termine della Camera di Consiglio, iniziata intorno alle 11,20, la Corte d’Assise del Tribunale dell’Aquila, formata dal Presidente Alessandra Ilari, il giudice a latere Niccolò Guasconi e i sei giudici popolari, ha condannato a 15 anni di carcere Gianmarco Paolucci per l’omicidio di Paolo D’Amico. La Corte ha riconosciuto infatti lo sconto della pena previsto dal rito abbreviato, non avendo riconosciuto le aggravanti. Paolucci è stato anche condannato al risarcimento da quantificare in sede di processo civile (con provvisionali da 100 e 50mila euro) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Lo sconto di pena di un terzo è stato possibile per il riconoscimento del rito abbreviato, grazie al fatto che la difesa del Paolucci, inizialmente composta dagli avvocati Mauro Ceci e Alessandra Di Tommaso, ricevuta la notifica del decreto di giudizio immediato, ha richiesto la definizione del processo con rito abbreviato, nel termine di 15 giorni e nonostante nel decreto non vi fosse nessuna indicazione in merito, in quanto sono state subito contestate le aggravanti, poi ritenute insussistenti. Questo passaggio ha consentito all’imputato la riduzione di un terzo della pena, nonostante la richiesta di condanna all’ergastolo avanzata dalla Procura.

“Ho 27 anni e sono un ragazzo normalissimo – ha detto l’imputato in sede di dichiarazioni spontanee – non ho mai parlato, perché quello che mi è accaduto è inimmaginabile. Non sono stato io, non ho mai fatto del male a nessuno e non avevo motivi per farne a Paolo D’Amico. Quella mattina ero al lavoro e nel pomeriggio ero andato a casa di mia madre per aggiustare la caldaia. Fatemi uscire da questo incubo”.
A seguire, le repliche di accusa e difesa. Il PM, la dottoressa Simonetta Ciccarelli, ha tenuto a “sgombrare il campo” rispetto ai sospetti sul personale della ditta che stava eseguendo i lavori a casa della vittima, precisando alcune dinamiche contestate dalla difesa. Quindi l’invito alla Corte ad assumere decisioni “non regolate dall’emotività”. La Difesa, con gli avvocati Mauro Ceci e Licia Sardo, ha ribadito le “carenze” nelle indagini, a partire dai due profili ignoti di DNA presenti sulla scena del delitto e non approfonditi, sostenendo che “manca la prova certa, al di là di ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato”.

Nella precedente udienza del 19 ottobre, il Pubblico Ministero, la dottoressa Simonetta Ciccarelli, aveva chiesto per l’imputato la condanna all’ergastolo, con il riconoscimento delle aggravanti relative a crudeltà e futili motivi. La difesa, rappresentata dagli avvocati Mauro Ceci e Licia Sardo, aveva invece chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto e in subordine l’applicazione del minimo della pena e le attenuanti generiche, con il non riconoscimento delle delle aggravanti. In quest’ultimo caso, senza il riconoscimento delle aggravanti, inoltre, è stato richiesto di accedere agli sconti di pena previsti per il rito abbreviato che inizialmente non è stato possibile chiedere per via appunto delle stesse aggravanti contestate.

Le arringhe del 19 ottobre.

Nella precedente udienza si era tenuta la discussione finale, con gli interventi di accusa e difesa. Per quanto riguarda la condanna per l’omicidio di Barisciano, l’accusa ritiene di avere in mano la “prova regina” rappresentata dalla presenza del DNA dell’imputato sui pantaloni della vittima. Per gli investigatori e la Procura, la traccia rinvenuta all’altezza delle caviglie si spiegherebbe con l’attività di trascinamento del corpo messa in atto dall’assassino, al fine di liberarsi la via di fuga. Ad evidenza del trascinamento, la posizione del corpo, rinvenuto a terra, con i pantaloni leggermente sfilati, nonostante la cinta, così com’era sfilato uno dei due calzini (la vittima è stata ritrovata senza scarpe). Anche il pile indossato dall’uomo risultava tirato verso la parte superiore del dorso, per effetto del trascinamento. Sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, un primo tentativo di spostare il corpo, sarebbe riscontrabile anche dagli strappi sotto le ascelle del giubbino indossato dalla vittima. Non riuscendo a spostare il corpo in questo modo, il colpevole sarebbe passato al trascinamento dalle caviglie. Da qui la traccia di DNA con corrispondenza “altamente probabile” con il profilo di Paolucci. Secondo la parte civile, rappresentata dall’avvocato Francesco Valentini, intenzionata a chiedere circa 1,7 milioni di euro di risarcimento per la madre e il fratello della vittima, questo sarebbe sufficiente a condannare Palucci, per un noto precedente, relativo a un caso di cronaca nazionale. Il riferimento è al delitto di Yara Gambirasio, per il quale è stato condannato Giuseppe Bossetti. Secondo quanto sottolineato dalla parte civile, in quel caso è bastata una corrispondenza probabilistica del DNA inferiore per giungere comunque alla condanna. Per la stessa accusa, indicativa anche la posizione del telefono dell’imputato che secondo le perizie avrebbe agganciato una cella telefonica compatibile con la zona dell’abitazione della vittima, nell’arco temporale individuato come quello in cui l’omicidio è avvenuto. Il Pm ha anche rimproverato all’imputato una condotta poco collaborativa al raggiungimento della verità, oltre alle incongruenze emerse durante le deposizioni davanti ai carabinieri.

Da parte sua, la Difesa ritiene che quella del DNA non possa essere considerata prova certa al 100% e ha parlato di possibili contaminazioni, dal momento che il DNA non è stato prelevato sul posto, ma solo in un secondo momento, in sede di autopsia. Inoltre, la difesa ha sottolineato come la traccia analizzata si sia rivelata una “mistura” e non traccia singola, particolare che renderebbe la corrispondenza meno inequivocabile di quanto vorrebbe l’accusa. Allo stesso modo, gli avvocati di Paolucci hanno segnalato la singolarità per cui la traccia è stata trovata solo sui pantaloni della vittima e in nessuna altra parte. Né sulle altre parti del corpo di D’Amico, che secondo la ricostruzione degli inquirenti avrebbe subito un precedente tentativo di spostamento, né sulle armi bianche utilizzate per l’omicidio (il cesello e la mazzetta da cantiere), né su altre superfici del luogo dell’omicidio. Ad ogni modo, l’alta probabilità di corrispondenza non escluderebbe comunque al 100% il contrario.

Per le aggravanti, invece, l’accusa ha chiesto quelle relative a crudeltà e futili motivi. La prima, per il numero di colpi inferti, la seconda in quanto il movente del cosiddetto omicidio di Barisciano sarebbe da individuare nell’ambito di consumo e cessione di stupefacenti o debiti non saldati. La Difesa, oltre alla colpevolezza dell’imputato, contesta in subordine anche le aggravanti, in quanto l’ultimo colpo sarebbe stato inferto alla vittima quando era ancora viva, quindi non ci sarebbe stato accanimento oltre l’atto stesso dell’omicidio, passaggio necessario secondo alcune sentenze della Cassazione per rilevare l’aggravante della “crudeltà”. Per la Difesa, infine, non sarebbero ravvisabili i futili motivi, in quanto il movente non sarebbe comunque emerso in maniera chiara.

Oggi, invece, la sentenza.

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