Cronaca

Omicidio di Barisciano, tre anni di indagini e udienze: si chiude una pagina nera della cronaca aquilana

Dal ritrovamento del corpo di Paolo D'Amico alla condanna a 15 anni per Paolucci. Tre anni di indagini e udienze per l'omicidio di Barisciano.

L’AQUILA – Dal ritrovamento del corpo senza vita di Paolo D’Amico alla condanna a 15 anni di carcere per Gianmarco Paolucci. Tre anni di indagini e udienze. Le certezze raggiunte e i dubbi che rimangono.

Erano diretti a Roma, ma volevano passare per L’Aquila per salutare Paolo D’Amico, 55enne dipendente dell’ASM che aveva una piccola abitazione in una zona isolata tra le campagne di Barisciano. Così la madre e il fratello avevano cominciato a tempestarlo di chiamate a cui l’uomo non aveva risposto, fino a preoccuparsi a tal punto da cercarlo direttamente a casa. Anche altre due persone, quel 24 novembre 2019, non riuscivano a mettersi in contatto con lui e pure loro lo hanno cercato in casa. In un primo momento sembrava non esserci nessuno, poi, con i carabinieri che dall’altro lato del telefono stavano già raccogliendo le preoccupazioni dei familiari, da una finestra laterale viene scorto un corpo a terra. È proprio quello di Paolo D’Amico. Inizia così quello che è stato ribattezzato come l’omicidio di Barisciano, che ha trovato una prima conclusione processuale a quasi tre anni di distanza da quel giorno con la condanna in primo grado a 15 anni di reclusione per il 27enne Gianmarco Paolucci, emessa nella giornata del 2 novembre 2022 dalla Corte d’Assise dell’Aquila. Lo sconto di pena di un terzo è stato possibile per il riconoscimento del rito abbreviato, grazie al fatto che la difesa del Paolucci, inizialmente composta dagli avvocati Mauro Ceci e Alessandra Di Tommaso, ricevuta la notifica del decreto di giudizio immediato, ha richiesto la definizione del processo con rito abbreviato, nel termine di 15 giorni e nonostante nel decreto non vi fosse nessuna indicazione in merito, in quanto sono state subito contestate le aggravanti, poi ritenute insussistenti. Questo passaggio ha consentito all’imputato la riduzione di un terzo della pena, nonostante la richiesta di condanna all’ergastolo avanzata dalla Procura.

Che si trattasse di omicidio, gli investigatori lo avevano capito subito: il corpo, infatti, presentava diverse ferite all’addome e aveva la testa fracassata sopra l’orecchio sinistro; le armi del delitto individuate in un cesello e una mazzetta da muratore. La vittima era stata ritrovata in posizione supina, con parte del corpo scoperta, essendo i pantaloni leggermente abbassati, nonostante portasse la cintura ancora allacciata e il pile in parte alzato verso il dorso, come per effetto di trascinamento, particolare che si rivelerà fondamentale per le indagini coordinate dalla Procura e assegnate ai Carabinieri.
I sopralluoghi nelle pertinenze dell’abitazione, poi, hanno rivelato la presenza di piante di marijuana che, come emergerà dalle successive indagini e dalle varie fasi processuali, la vittima coltivava e cedeva. Mancava però qualcosa: gli investigatori, infatti, ritennero che l’assassino avesse asportato alcune di queste piante di marijuana, avanzando l’ipotesi di un delitto commesso nell’ambito degli stupefacenti o per debiti non onorati. Dal luogo del delitto mancavano però anche altre cose: il portafogli e il telefono cellulare della vittima, entrambi evidentemente portati via da chi aveva commesso l’omicidio di Barisciano. Nulla di tutto questo è stato più ritrovato. Senza il telefono a disposizione, gli investigatori sono stati costretti a chiedere la duplicazione della sim intestata alla vittima all’operatore telefonico, così da avere almeno i tabulati dei contatti, in modo da avere un quadro delle frequentazioni della vittima, oltre quelle apprese tramite sommarie informazioni di amici e conoscenti. Viene ricostruita quindi la serie dei contatti che la vittima aveva, diversi dei quali per motivi legati agli stupefacenti. Indagini ad ampio raggio si estendono a decine e decine di persone che in qualche modo avevano avuto a che fare con il 55enne. Qualcuno dà risposte evasive, molti sono preoccupati dall’emergere delle frequentazioni per motivi di droga, così il percorso dei carabinieri si fa piuttosto complesso. Gli inquirenti hanno solo diversi sospetti, nessuna pista precisa, finché dai RIS di Roma arriva la notizia della svolta: sui pantaloni della vittima, all’altezza di una caviglia, è presente una traccia di DNA non appartenente alla stessa vittima e utile alla comparazione. A quel punto gli investigatori hanno qualcosa in più di un semplice indizio o sospetto. Hanno una traccia concreta da seguire

Si procede così a prelevare il DNA di quelle persone che agli occhi degli investigatori apparivano maggiormente sospette, per deposizioni poco coerenti o atteggiamenti poco cristallini. Qualcuno si sottopone volontariamente a prelievo, qualcun altro no. Così gli inquirenti si mettono sulle tracce dei più riottosi e quel DNA se lo procurano con altri mezzi. È il caso di un giovane, allora quasi 25enne, che secondo i carabinieri nasconde qualcosa, parla poco e si contraddice. Inoltre, due giorni prima del ritrovamento del corpo, il 22 novembre 2019, data individuata come quella dell’omicidio di Barisciano, il cellulare del ragazzo aggancia una cella nella zona dell’abitazione di D’Amico. Per prelevargli il DNA, gli investigatori fingono un normale posto di blocco e con una pattuglia di carabinieri fermano il ragazzo lungo il suo abituale tragitto da casa al lavoro. A quel punto lo sottopongono ad alcoltest, ma non vogliono sapere se il ragazzo ha bevuto: quel controllo serve ad avere traccia del suo DNA sul boccaglio. Questa volta la risposta è positiva. Per i RIS di Roma, il DNA di quel giovane è compatibile con “elevata probabilità” con quello ritrovato sui pantaloni della vittima. Per la Procura può scattare la richiesta d’arresto, con relativa convalida del Gip. Erano gli inizi di febbraio 2021, a finire in arresto con l’accusa di omicidio, Gianmarco Paolucci.

Il processo.

Con l’arresto di Gianmarco Paolucci, difeso dall’avvocato Mauro Ceci a cui si affiancherà l’avvocato Licia Sardo del foro di Milano, si scoprono le carte e viene messa nero su bianco la ricostruzione della Pubblica accusa, che con quel DNA ritiene di avere in mano la “prova regina” per l’omicidio di Barisciano che ne confermerebbe la validità, in accordo con i numerosi “indizi” raccolti, alcuni dei quali saranno però delle “mancate conferme”. Da parte sua, la difesa parte proprio da queste ultime: mentre viene effettuato l’esame tossicologico sul capello del giovane che dà esito negativo, vengono analizzate anche le scarpe sequestrate, inizialmente ritenute compatibili con l’orma di sangue ritrovata sul luogo del delitto, le due auto nelle disponibilità dell’imputato, gli ambienti della sua abitazione. Nessuna traccia della vittima viene rilevata e le stesse scarpe non troveranno corrispondenza effettiva nell’orma, per via di solchi diversi.
Le “schermaglie” tra accusa e difesa proseguono nell’ambito della vita privata di vittima e presunto carnefice. All’imputato viene contestata la gestione dei propri guadagni come macellaio di un punto vendita di un supermercato della zona, ritenuta piuttosto spregiudicata per via di frequentazioni di sale scommesse, in cui il giovane avrebbe giocato con particolare insistenza, facendo continui prelievi. In particolare, contestato un grosso prelievo per l’ammontare dell’intero stipendio, effettuato in solo giorno. La difesa ha invece tenuto a sottolineare che “monetizzare” il proprio stipendio in tempi brevi non può essere considerato reato, né sintomo di ludopatia, cercando di scardinare il secondo movente ipotizzato. Se il primo afferiva infatti all’ambito della cessione e consumo di stupefacenti, il secondo era relativo a debiti non saldati o comunque a questioni economiche aperte tra i due.
Un altro punto su cui si è a lungo dibattuto è stato quello della mano omicida. Per il medico legale, infatti, nell’ambito dell’omicidio di Barisciano, i colpi alla vittima erano stati inferti con la mano destra, mentre l’imputato si è sempre dichiarato mancino, come confermato tra l’altro da una perizia che ha analizzato le firme messe dallo stesso giovane in varie sedi. D’altra parte l’accusa ha puntato a dimostrare che, con qualunque mano firmasse, il giovane aveva comunque imparato a usare la destra per il suo lavoro da macellaio.

Al di là delle questioni tecniche emerse durante il processo, un mistero però aleggia ancora intorno a tutta la vicenda, anche se evidentemente non è stato ritenuto determinante per la sentenza che ha portato alla condanna a 15 anni di carcere per Paolucci. Il mistero riguarda alcuni furti di piantine di marijuana subiti dalla vittima che aveva riferito a diversi testimoni di sentirsi minacciato, tanto da voler acquistare un’arma. Arma che non è stata trovata, anche se è stata rinvenuta la scatola di una pistola a gas. Ma chi erano le persone da cui D’Amico si sentiva minacciato? Nelle deposizioni raccolte dai carabinieri appena scattate le indagini, un testimone aveva riferito che Paolo D’Amico aveva parlato della persona da cui si sentiva minacciato, con un nome che non ricordava precisamente, ma iniziava per G, compatibile, quindi, con il nome dell’imputato, Gianmarco. In aula, però, lo stesso teste ha escluso potesse trattarsi di un nome composto. D’Amico aveva anche indicato fisicamente la persona in questione a un conoscente, mentre si trovavano in un bar di Bazzano, ma il soggetto indicato era fuori dal locale, di spalle, quindi il testimone ha potuto fornire solo una descrizione parziale e comunque non riconducibile all’imputato. L’episodio è stato ricordato dall’avvocato Licia Sardo in sede di replica proprio nell’ultima udienza. La vittima, ha sottolineato l’avvocato, aveva paura di qualcuno, ma non è di uno come Gianmarco Paolucci che poteva averla. Aveva paura di altre persone, probabilmente legate alla sua precedente esperienza romana. Quest’ultimo dubbio, rilanciato prima della riunione in Camera di Consiglio, non è però bastato ad evitare la condanna a 15 anni per Gianmarco Paolucci, sebbene non nella “consistenza” richiesta dalla Pubblica accusa che, nella persona del pm, la dottoressa Simonetta Ciccarelli, aveva chiesto la condanna all’ergastolo, con il riconoscimento delle aggravanti della crudeltà e dei futili motivi.

Omicidio di Barisciano, la sentenza.

Al termine della Camera di Consiglio, iniziata intorno alle 11,20 e terminata poco dopo le 15 del 2 novembre 2022, la Corte d’Assise del Tribunale dell’Aquila, formata dal Presidente Alessandra Ilari, il giudice a latere Niccolò Guasconi e i sei giudici popolari, ha condannato a 15 anni di carcere Gianmarco Paolucci per l’omicidio di Paolo D’Amico. La Corte ha riconosciuto infatti lo sconto della pena previsto dal rito abbreviato, non avendo riconosciuto le aggravanti. Paolucci è stato anche condannato al risarcimento alle parti civili (la madre e il fratello della vittima) da quantificare in sede di processo civile (con provvisionali immediatamente esecutive da 100 e 50mila euro) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Come in tutti i verdetti di condanna, Paolucci dovrà anche pagare le spese processuali.
Lo sconto di pena di un terzo è stato possibile per il riconoscimento del rito abbreviato, grazie al fatto che la difesa del Paolucci, inizialmente composta dagli avvocati Mauro Ceci e Alessandra Di Tommaso, ricevuta la notifica del decreto di giudizio immediato, ha richiesto la definizione del processo con rito abbreviato, nel termine di 15 giorni e nonostante nel decreto non vi fosse nessuna indicazione in merito, in quanto sono state subito contestate le aggravanti, poi ritenute insussistenti. Questo passaggio ha consentito all’imputato la riduzione di un terzo della pena, nonostante la richiesta di condanna all’ergastolo avanzata dalla Procura.

Si chiude, almeno per quando riguarda il primo grado di giudizio, una vicenda che ha turbato la concezione di “isola felice” legata a L’Aquila, almeno in riferimento ai delitti più gravi, come l’omicidio di Barisciano. Una conclusione che però non convince la difesa, nonostante sia riuscita ad evitare l’ergastolo al suo assistito: “Sono emersi lati oscuri che vanno ancora chiariti”. Per quello ci sarà la possibilità del ricorso in Appello: “Valuteremo bene le motivazioni della sentenza – ha spiegato l’avvocato Ceci – e decideremo a riguardo”.

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