Mondiali qatar 2022: the show must go on

L’altra faccia dei Mondiali in Qatar, nei cantieri dello sfruttamento con Valerio Nicolosi

Qatar, è tutto pronto per i mondiali. Le foto che raccontano ciò che non mostreranno le tv: la mostra di Valerio Nicolosi documenta la situazione nei cantieri degli stadi e nel villaggio, in mezzo ai lavoratori

L’altra faccia dei Mondiali in Qatar.
All’ombra dei grattacieli e dell’elegante skyline di Doha, i volti degli operai che hanno reso possibile lo svolgimento della competizione, anche a costo della loro vita. “The show must go on”: testimonianze dal Qatar nella mostra di Valerio Nicolosi al Brancaleone.

Qatar, novembre 2022. Oggi è tutto pronto per i mondiali di calcio.
Doha, “l’avanguardista” capitale qatariota, appare come una cartolina moderna, fresca, lanciata verso uno sviluppo avanzato. Una patina elegante che prova a celare la faticosa realtà di sopravvivenza al di là di palazzi e grattacieli. La realtà di migranti arrivati dal sud-est asiatico alla ricerca di qualcosa di migliore, impossibile da trovare in container asfissianti, in cui i metri di spazio fisico si contano sulle dita di una mano. Una realtà che resterà fuori dalle telecamere del mondo, accese a raccontare i mondiali di calcio assegnati un decennio fa ad un Paese diventato frettolosamente un cantiere a cielo aperto. Perché il calcio doveva arrivare a sponsorizzare uno stato che, in quegli anni, non aveva neanche uno stadio adatto a un evento di tale portata.
Qatar, febbraio 2022. L’altra faccia del Qatar sarà raccontata a Roma dal reportage di Valerio Nicolosi: nei locali del Brancaleone, in via Levanna 11, a Roma (ingresso con tessera Arci). Mostra visitabile fino a domenica 27 novembre.
Un lavoro che aprirà uno spaccato sui cantieri in cui si sono ritrovati a lavorare gli operai per la costruzione degli stadi ospitanti le gare dei Mondiali. Il titolo parla da sé, “The show must go on”. 

mondiali qatar mostra Valerio nicolosi

“La mostra è composta da 20 foto – dieci ritratti e dieci foto di contesto tra stadi e villaggio attiguo al cantiere – e documenta la situazione in cui operai migranti si sono ritrovati a lavorare. In Qatar, infatti, circa il 90% della popolazione è costituito da migranti: solo il 10% è rappresentato da residenti, quindi la fascia di cittadini abbienti. Gli scatti esposti rappresentano ciò che sono riuscito a vedere tra i cantieri e il villaggio vicino: dove, in quel momento, vivevano circa 1000 persone. Ovviamente tutti migranti. C’erano i vari container che comprendevano stanze per dormire (vi dormivano anche in 4 per stanza), la mensa, la lavanderia, la moschea. Una sorta di microcosmo con gli spazi necessari per vivere.
In 10 ritratti – selezionati dal materiale raccolto – la mostra esprime la volontà di dare un volto a 10 migranti e alle loro storie, con altre 10 immagini che contestualizzano il piccolo mondo in cui vivevano tra lavoro e post lavoro“. 

Valerio Nicolosi è volato in Qatar, per documentare la situazione nei cantieri, grazie al sindacato internazionale degli edili, BWI.
“Ci sono state diverse morti, è ancora complicato stabilirne il numero preciso. Nel corso degli anni a tutelare i lavoratori è intervenuto il sindacato BWI, che è riuscito a strappare alcuni diritti per queste persone, le quali, fino a qualche anno fa, versavano in situazioni anche peggiori di ciò che abbiamo potuto constatare”.
“Quando sono arrivato
– continua a raccontare Nicolosi – non si verificavano incidenti mortali nei cantieri degli stadi da circa due anni: ciò perché, proprio grazie all’impegno del sindacato degli edili, erano state apportate modifiche alle condizioni di lavoro. Il problema, tuttavia, c’era anche al di fuori degli stadi, poiché Doha era praticamente diventata un grandissimo cantiere che si stava preparando al grande evento“. 

Com’è stato lavorare in Qatar?
“Ero consapevole che si trattava di un’esperienza particolare e complessa…Ero autorizzato a fare foto solo nei cantieri e all’interno del villaggio. È stato interessante poter vedere e vivere sulla mia pelle la profonda dualità di Doha. Una città spaccata in due: da un lato i grattacieli, la ricchezza, le immagini che vedremo in questo mese di Mondiale; dall’altro lato i quartieri in cui vive il 90% della popolazione, che sembravano proiettarmi nel pieno sud-est asiatico, zona di provenienza della stragrande maggioranza di questi migranti”.

In Qatar c’era percezione di problemi legati alla sicurezza nei cantieri e delle polemiche che nascevano in Occidente?
“Il Qatar non è un Paese democratico per come conosciamo noi la democrazia, quindi non dobbiamo aspettarci l’esistenza di un dibattito politico. Il Paese ha fatto un investimento enorme sullo sport per veicolare un’immagine ben precisa. Probabilmente chi ha in mano il potere non si aspettava queste polemiche e per loro – che hanno costruito una strategia di promozione e sviluppo del Paese esclusivamente basata sull’immagine – questo ‘parlare di’ è un vero problema.
Lì si è abituati a tirare dritto, senza avere troppi ostacoli. Basti pensare che una delle maggiori testate internazionali, Al Jazeera – la più importante del mondo arabo, che in molti Paesi denuncia violazioni dei diritti umani – in Qatar appartiene proprio all’Emiro“. 

In questi giorni, quando siamo ormai alla vigilia dei Mondiali Qatar 2022, si parla di boicottare la competizione, per boicottare, di conseguenza, il Qatar. Ciò in considerazione delle notizie riguardanti proprio le morti tra gli operai impiegati nei cantieri degli stadi. 
“Farlo adesso ritengo non abbia molto senso, sicuramente andava fatto molto tempo fa. Ci sono organizzazioni, come Amnesty International, che denunciano questi fatti da anni, ma sono denunce che hanno sempre trovato poco spazio.
In questo caso parliamo dell’assegnazione di una competizione arrivata 10 anni fa e, a mio avviso, non potevamo fermare questo fenomeno. Il calcio ormai è diventato un vero e proprio business: lo vediamo con società che sono autentiche multinazionali. Penso al Paris Saint Germain, di proprietà di qatarioti e che investe in asset sportivi. Se, quindi, la Fifa o la UEFA guardano principalmente al guadagno, si rischia di ritrovarsi dinanzi a queste situazioni difficili da fermare. Un esempio? Solo qualche giorno fa alla nazionale della Danimarca è stato vietato dalla Fifa di indossare una maglia da allenamento con la scritta ‘Diritti umani per tutti’. Un gesto simbolico non permesso, a riprova che ci sia evidentemente volontà di censura. In questo momento, per loro, è importante lo spettacolo, ossia il business, e i diritti umani restano in secondo piano. Era così 10 anni fa ed è così adesso”.

Il Qatar, allora, sembra ridisegnare anche i detti. The business must go on. E questa volta non basteranno hashtag né televisori spenti per cambiare le cose.

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