Celebrazioni e tradizioni

Sant’Antonio e le farchie, dall’Abruzzo al Giappone: le tradizioni che uniscono

Sant'Antonio in Abruzzo tra fuochi, fede e buon auspicio. Alla scoperta delle Farchie di Fara Filiorum Petri e quel legame con il Giappone

Nel segno del fuoco, della fede, del buon auspicio e della fratellanza. Si rinnova la Festa di Sant’Atonio Abate nella cornice di Fara Filiorum Petri.
Le fiamme riaccendono la storia e la devozione, come in Giappone.
Le scintille alte delle Farchie circondate dal profumo dei piatti della tradizione: riti che il tempo non cancella.

Quella di Sant’Antonio Abate non è mai una notte come le altre. Non lo è in Abruzzo, dove molti paesi si riuniscono per le celebrazioni in onore del protettore degli animali domestici. Soprattutto non lo è e non lo sarà a Fara Filiorum Petri, che – dopo gli anni bui della pandemia – torna a riaccendersi nel nome di Sant’Antonio Abate. Ad accendersi, tuttavia, non sarà solo il piccolo centro del teatino, ma saranno numerosi paesi d’Abruzzo (e d’Italia) nella notte tra il 16 e il 17 gennaio, quando si celebra Sant’Antonio,
Un rito profondo, quello in onore del Santo, che ha la forza di unire ed appassionare non solo gli abruzzesi che tramandano la propria tradizione di anno in anno – alla luce di falò, farchie e “favòre” – ma anche chi arriva da lontano e riconosce nell’usanza un rito che prende forma perfino in terra d’Oriente: è il caso del Giappone, dove i fuochi rievocano una storica sanguinosa battaglia.

Sant’Antonio e i fuochi – Fara Filiorum Petri e le “Farchie”

Ogni 16 gennaio Fara Filiorum Petri celebra la ricorrenza di Sant’Antonio Abate. I festeggiamenti coinvolgono tutti gli abitanti delle contrade del borgo, nella preparazione delle cosiddette Farchie. Si tratta di enormi fasci di canne alte circa 10 metri: ogni contrada realizza una farchia e, nelle prime ore del pomeriggio del 16 gennaio, vengono trasportate nel piazzale antistante la Chiesa di Sant’Antonio Abate, dove vengono innalzate. Poi, all’imbrunire, le farchie vengono accese: le fiamme rischiarano la notte, offrendo un magico spettacolo di luci. Intorno ai fuochi, cittadini e visitatori festeggiano in onore del Santo: tra canti, musiche della tradizione popolare abruzzese, buon vino e, naturalmente, ricette tipiche.
Tradizione vuole che la festa delle farchie sia stata originata da un miracolo per intercessione di Sant’Antonio, al tempo dell’invasione francese del 1799. All’epoca Fara era protetta da un grande querceto che si estendeva fino a coprire interamente la contrada Colli. Venendo da Bucchianico verso Guardiagrele, i francesi volevano occupare Fara, ma l’apparizione di Sant’Antonio nelle vesti di un generale li fermò. Il santo intimò alle truppe di non oltrepassare la selva ed al loro diniego trasformò gli alberi in immense fiamme che spaventarono i soldati: da allora, quel miracoloso incendio viene simbolicamente ricreato con le fiamme delle Farchie.

Le immagini dei festeggiamenti a Fara Filiorum Petri

Le “farchie” in Giappone: i “Taimatsu”

Che c’entra il Giappone? Viene da chiedersi. Il fuoco è una storica tradizione evocativa anche oltreoceano, con i Taimatsu. 
La città di Sugakawa il secondo sabato di novembre accende numerosi fuochi per ricordare una battaglia del 1589: appuntamento commemorativo in ricordo dei samurai giapponesi e della loro fedeltà alla propria feudataria, durante l’assedio in cui la città fu presa dal nipote della feudataria, Date Masamune. Meticolosa la preparazione dei Taimatsu, che inizia mesi prima rispetto alla data della ricorrenza e prevede l’intreccio di rami di bambù in grandi strutture piene di kaya (una sorta di paglia).
Ogni contrada prepara il suo taimatsu – proprio come a Fara Filiorum Petri – e nel giorno della ricorrenza si svolge la sfilata delle diverse contrade, prima che i taimatsu vengano incendiati.
Una tradizione comune, quindi – anche se dal diverso significato – motivo di gemellaggio e “vicinanza” tra le due realtà, geograficamente tanto lontane, Fara Filiorum Petri e Sugakawa.

Diverse storie, diversi significati, ma lo stesso simbolo del fuoco che si alza al cielo, in una notte di novembre o di gennaio: a legare due terre e la propria cultura storica e popolare.

Sant’Antonio, i fuochi della tradizione in Abruzzo

Le prime attestazioni storiche relative al culto di Sant’Antonio Abate a Collelongo risalgono allo scorcio del 1600, periodo in cui verosimilmente venne eretto l’Altare dedicato al Santo nella chiesa di Santa Maria Nuova.
Il fuoco è protagonista anche delle celebrazioni collelonghesi, con il “torcione”, caratteristica unica di Collelongo.
Una volta era ricavato da un unico esemplare di quercia che abili maestri d’ascia provvedevano a lavorare fino a dargli la caratteristica forma. Questo successivamente veniva “inzeppato” con “stangoni” ed altra legna ed infine issato nelle piazze principali del paese. Particolarmente suggestivo era “I favòre”, falò che i pastori accendevano in località Sant’Antonio. Da questo punto è possibile vedere sia il paese, che gli stazzi di Amplero: la tradizione vuole che al più vecchio ed al più giovane tra i pastori che tornavano dagli stazzi a far festa fosse dato l’onore di accendere il “favòre”.
Menzione a parte meritano le “torcette”, le particolari torce che i bambini di Collelongo utilizzano nella processione della sera del 16 gennaio. A differenza delle normali torce che si usano altrove, quelle di Collelongo sono realizzate “torcendo”, ovvero avvolgendo su se stesso (da qui il nome), un virgulto di roverella, cerro o carpine. Questa operazione sfibra il legno permettendo alle abili mani del torcettaro di ricavarne un prodotto unico per la gioia dei tanti bambini, i nuovi devoti alla festa di Sant’Antonio Abate.

Una festa antica in onore di Sant’Antonio si rinnova anche ad Alfedena, piccolo borgo del Parco Nazionale d’Abruzzo. In ogni casa, le nonnine di una volta avevano almeno un’immaginetta del santo, sormontata da un piccolo ramoscello di ulivo, che veniva benedetta dal parroco del paese. Per più di mezzo secolo c’è stato don Camillo Lombardi, oggi scomparso, devoto al santo e alla tradizione della festa. Oggi, a tenere viva la tradizione, ci sono tutti o quasi i giovani del paese che già da giorni stanno accatastando “le lena” per preparare i tanti fuochi che verranno accesi in vari punti del piccolo borgo. Fra i tanti che animeranno questa giornata, merita sicuramente una menzione Crispino Crispi, titolare di uno storico alimentari e da qualche anno in pensione. Crispi è molto legato a un fuoco in particolare: quello della via Canapina, la strada dove abitava con i genitori Giovanni Ida, molto conosciuti in paese e che oggi non ci sono più.“Fuochista da sempre”, così si definisce, ha cominciato questa attività nel 1966, quando la via era abitata da tanti personaggi che hanno fatto la storia del paese. Ognuno porta quello che ha in casa: due patate da cuocere alla brace, il pane fatto in casa, un po’ di vino e, tra stornelli improvvisati, si ripercorrono le storie e gli episodi legati a tanti personaggi che hanno caratterizzato il paese; e per chi ne ha ancora memoria anche la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, che colpì molto queste zone che si trovavano lungo la linea Gustav e sotto lo scacco dei bombardamenti. Sulle tavole improvvisate spunta la panonta, le “lullitte e faciule”, le tanto amate “ciceranate”, che altro non è che granturco bollito nelle cuttore e servito nei cartocci ai tanti che hanno prima partecipato alla processione.

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