Sant’Antonio in Abruzzo: fuochi, canti e ricette di una tradizione secolare

Evviva Sant’Antonio! Dopo 2 anni in Abruzzo risuonano i canti in onore del santo: benedizioni, fuochi e piatti della tradizione
Evviva Sant’Antonio!
L’Abruzzo risuona dei canti in onore del protettore degli animali: in una giornata che ha il sapore della fede, della condivisione, della storia contadina e del buon auspicio per i raccolti futuri. Preghiere, celebrazioni liturgiche e benedizioni si uniscono al folclore e alle leggende popolari: il tutto immerso nel profumo delle ricette tipiche che scoppiettano sul fuoco. Perché Sant’Antonio è la festa del dare.
Tornano in Abruzzo i festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate dopo due anni di restrizioni causa pandemia. Oggi, 17 gennaio, si celebra sant’Antonio, protettore della vita agreste, onorato e venerato in tantissimi paesini montani abruzzesi.
Il tradizionale fuoco è tornato a scaldare il cuore di tutti, in una notte di festa in cui le tradizioni popolari, il folklore, in vino robusto e gentile sono stati inevitabilmente protagonisti.
“Torcioni”, “farchie”, “focarazzi”, “ceppi” o “falò di S. Antonio”, da sempre nei riti popolari per celebrare la ricorrenza: il fuoco l’elemento in comune, per la sua funzione purificatrice e fecondatrice, come, del resto, tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno all’imminente primavera. Il culto del santo egiziano è un punto fermo nella tradizione contadina dei nostri piccoli borghi.
Un rito religioso che presenta inevitabilmente dei tratti pagani, legati a un periodo dell’anno dedicato storicamente al culto della famiglia e al riposo dal lavoro contadino. Un atto di devozione con cui la popolazione affidava la custodia e la protezione di quanto avevano di più prezioso: poiché la perdita di quegli animali avrebbe potuto comportare la rovina per le famiglie e le economie di un tempo.

Oggi le celebrazioni di Sant’Antonio sono anche il momento in cui si riscopre la musica popolare – come a Collelongo nelle cuttore in festa o a Molina Aterno, dove gli abitanti girano, di casa in casa, intonando le canzoni dedicate al santo. Strumenti e canzoni semplici e non manca, ovviamente, la gastronomia locale. La festa di Sant’Antonio, infatti, in tanti paesi abruzzesi è legata all’uccisione del maiale: un altro vero e proprio rito al quale partecipano amici e parenti che collaborano nel lavoro.
Tra i festeggiamenti più conosciuti in Abruzzo ci sono quelli di Fara Filiorum Petri e Collelongo.
Il Capoluogo ha ricostruito la tradizione che accende, ogni anno, il borgo del chietino alla luce delle Farchie.
Fara Filiorum Petri:
Ogni 16 gennaio Fara Filiorum Petri celebra la ricorrenza di Sant’Antonio Abate. I festeggiamenti coinvolgono tutti gli abitanti delle contrade del borgo, nella preparazione delle cosiddette Farchie. Si tratta di enormi fasci di canne alte circa 10 metri: ogni contrada realizza una farchia e, nelle prime ore del pomeriggio del 16 gennaio, vengono trasportate nel piazzale antistante la Chiesa di Sant’Antonio Abate, dove vengono innalzate. Poi, all’imbrunire, le farchie vengono accese: le fiamme rischiarano la notte, offrendo un magico spettacolo di luci. Intorno ai fuochi, cittadini e visitatori festeggiano in onore del Santo: tra canti, musiche della tradizione popolare abruzzese, buon vino e, naturalmente, ricette tipiche.
Tradizione vuole che la festa delle farchie sia stata originata da un miracolo per intercessione di Sant’Antonio,al tempo dell’invasione francese del 1799.All’epoca Fara era protetta da un grande querceto che si estendeva fino a coprire interamente la contrada Colli. Venendo da Bucchianico verso Guardiagrele, i francesi volevano occupare Fara, ma l’apparizione di Sant’Antonio nelle vesti di un generale li fermò. Il santo intimò alle truppe di non oltrepassare la selva ed al loro diniego trasformò gli alberi in immense fiamme che spaventarono i soldati: da allora, quel miracoloso incendio viene simbolicamente ricreato con le fiamme delle Farchie.
Qui l’approfondimento
Anche l’aquilano celebra da secoli Sant’Antonio Abate. Tra i riti più partecipati e sentiti quello che riunisce, ogni anno, la comunità di Collelongo e i vicini paesi marsicani.
Le prime attestazioni storiche relative al culto di Sant’Antonio Abate a Collelongo risalgono allo scorcio del 1600, periodo in cui verosimilmente venne eretto l’Altare dedicato al Santo nella chiesa di Santa Maria Nuova.
La festa collelonghese si svolge storicamente nelle Cuttore. Il termine deriva dalla grossa pentola dove si mette a cuocere il granturco che, dopo sei/sette ore di bollitura, diventa “i ceceròcche” (dal latino cicercrocus, cece rosso). La cuttora identifica il focolare che, al rintocco delle campane dei vespri del giorno 16, con la recita delle litanie viene acceso con legna di ginepro. La cuttora, quindi, è più in generale il locale dove si svolge la festa per l’intera notte, si ospitano i pellegrini e le bande di suonatori che girano tutta la notte intonando i versi della classica canzone dedicata al santo. Un tempo la cuttora era prerogativa del patriarca di una famiglia che invitava a parteciparvi i parenti più prossimi, i quali contribuivano con “coppe” di granturco, vino, farina o salsicce. La festa dentro la “cuttora” proseguiva per tutta la notte ed era anche il momento in cui venivano pianificate la semina e le altre attività agresti della famiglia. Alla presenza del Santo, inoltre, erano vietate liti e per questo il momento era propizio per arrivare ad accordi. Nella “cuttora” erano ben accetti i viandanti o i pellegrini ai quali veniva offerto ciò che la cuttora aveva, ovvero la “panetta”, qualche ciambella, un bicchiere di vino e, soprattutto i “cicerocche” conditi grossolanamente con un po’ di lardo (almeno chi se lo poteva permettere). I “cicerocche” la mattina venivano poi offerti fuori la chiesa come cibo sacrale per gli animali.
Durante la notte Colleolongo brilla alla luce del “torcione”, caratteristica unica del piccolo comune montano. Una volta veniva ricavato da un unico esemplare di quercia che abili maestri d’ascia provvedevano a lavorare fino a dargli la caratteristica forma. Questo successivamente veniva “inzeppato” con “stangoni” ed altra legna ed infine issato nelle piazze principali del paese.
Particolarmente suggestivo era “I favòre”, falò che i pastori accendevano in località Sant’Antonio. Da questo punto è possibile vedere sia il paese che gli stazzi di Amplero e la tradizione vuole che al più vecchio ed al più giovane tra i pastori, che tornavano dagli stazzi a far festa, fosse dato l’onore di accendere il “favòre”. Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici.

La tradizione ad Alfedena
Una festa antica in onore di Sant’Antonio si rinnova anche ad Alfedena, piccolo borgo del Parco Nazionale d’Abruzzo. In ogni casa, le nonnine di una volta avevano almeno un’immaginetta del santo, sormontata da un piccolo ramoscello di ulivo che veniva benedetto dal parroco del paese. Per più di mezzo secolo c’è stato don Camillo Lombardi, oggi scomparso, devoto al santo e alla tradizione della festa. Oggi, a tenere viva la tradizione, ci sono tutti o quasi i giovani del paese che già da giorni stanno accatastando “le lena” per preparare i tanti fuochi che verranno accesi in vari punti del piccolo borgo. Fra i tanti che animeranno questa giornata, merita sicuramente una menzione Crispino Crispi, titolare di uno storico alimentari e da qualche anno in pensione. Crispi è molto legato ad un fuoco in particolare: quello della via Canapina, la strada dove abitava con i genitori Giovanni e Ida, molto conosciuti in paese e che oggi non ci sono più.“Fuochista da sempre”, così si definisce, ha cominciato questa attività nel 1966: quando la via era abitata da tanti personaggi che hanno fatto la storia del paese. Ognuno porta quello che ha in casa: due patate da cuocere alla brace, il pane fatto in casa, un po’ di vino e, tra diversi stornelli improvvisati, si ripercorrono le storie e gli episodi legati a tanti personaggi che hanno caratterizzato il paese. Quindi, per chi ne ha ancora memoria, si racconta anche della tragedia della Seconda Guerra Mondiale, che colpì pesantemente queste zone trovatesi lungo il perimetro della linea Gustav e sotto lo scacco dei bombardamenti. Sulle tavole improvvisate spunta la panonta, le “lullitte e faciule”, le tanto amate “ciceranate”, cioè granturco bollito nelle cuttore e servito nei cartocci ai tanti che hanno prima partecipato alla processione.

Capitignano e il rito del maiale
La festività di Sant’Antonio, meglio conosciuto nel mondo rurale abruzzese come Sant’Andònie de jennàre o de lu porche, è ricca di riferimenti sociali e religiosi, nonché di significati antropologici. La narrazione tramandatasi nel tempo a Capitignano non si discosta molto da quella più comune che racconta dei fuochi (le farchie) in ogni quartiere, dei balli, delle musiche, delle pietanze tipiche luogo per luogo in offerta, della benedizione degli animali e del sale, così trasmessa alle generazioni del nostro paese.
Un maialino, già nei mesi precedenti, veniva allevato dall’intero villaggio. Quando, lasciato libero, entrava nelle case, era segno di buon auspicio per la protezione degli animali. La sera era ospitato in una delle tante stalle del paese.
Il giorno della Vigilia di Sant’Antonio veniva poi macellato. Le zampe, “gli zampitti”, venivano messi all’asta e chi si aggiudicava un Palio avrebbe avuto poi il compito di prepara il maiale per il 17 gennaio. Maiale poi offerto alla comunità insieme al farro, alla “quagliata”, alle rape rosse, ai tagliolini e fagioli.
Nella ricorrenza gli animali erano coperti con nastri colorati e ghirlande e poi venivano benedetti fuori dalla Chiesa. Quelli domestici, invece, entravano in Chiesa e lì venivano benedetti.
Questa amata tradizione fu riproposta dal “Comitato ’97 Pro San Flaviano” (Patrono di Capitignano) nell’anno 1997, appunto, di concerto con l’amministrazione comunale. Da 24 anni, quindi, su coordinamento del Presidente del Comitato, la tradizione è stata ininterrottamente rievocata, sempre in collaborazione con le amministrazioni civiche succedutesi nel tempo e con alcuni volenterosi cittadini. “Con la scomparsa di alcuni prodotti rurali, come la cagliata o le rape rosse – spiega al Capoluogo il Presidente Pio Fulvi–da qualche tempo le vivande in offerta da noi a Sant’Antonio sono composte dal farro, (solo di recente da pasta con ragù di carni, maiale, vitello, pecora, spezzatino di vitello, salsicce alla brace e contorni occasionali, come verza e patate), il tutto servito gratuitamente ai partecipanti, al cospetto di un grande fuoco. Unitamente ad un bicchiere di buon vino e insieme a colui che in questa data la fa da padrone, sua maestà il maialino, in bella vista al centro della piazza centrale del paese, pronto per seguire colui che se lo aggiudicherà attraverso il palio, con il cui ricavato si provvederà a far fronte alle spese per la festa”.