Un vagabondo tra le montagne, la poesia di Clemente Di Leo

Una poesia del giovane Clemente Di Leo, poeta abruzzese, scomparso prematuramente, per l’appuntamento con la rubrica a cura di Valter Marcone.
Clemente Di Leo (Colledimacine, 1946 – Colledimacine, 1970), affetto da una grave cardiopatia fin da bambino, l’autore abruzzese è costretto ad abbandonare la Scuola dopo la quinta elementare ma non rinuncia mai ad acculturarsi come autodidatta ed a vivere con coraggio ed ironia la sua passione per l’arte.
Da adolescente pubblica a sue spese le prime sillogi di liriche attribuendole beffardamente ad un fantomatico Massimo Rocòvic, che presenta nelle note introduttive dei suoi libri come “una delle voci poetiche più autentiche e singolari del nostro Novecento”. Smanioso di far conoscere la sua opera, si adopera in prima persona per vendere le copie delle sue prime raccolte di versi ai passanti sul lungomare di Pescara, viaggiando ogni giorno in corriera dal suo piccolo paese di 200 abitanti al capoluogo di regione.
Ottiene finalmente un riconoscimento dal mondo accademico e letterario vincendo a L’Aquila il premio ‘La Madia d’Oro’ per il poemetto Gilgamesh, primo componimento pubblicato con un vero editore.
Felice per il successo, festeggia in osteria con gli amici durante una intera notte di bagordi ma il suo fragile cuore non regge e muore poche ore dopo, il 5 luglio 1970, a soli 24 anni.
Gianluca Salustri su “Qualche riga d’Abruzzo .it scrive: “Di Leo è beatamente sfrontato, quasi come un rappresentante della letteratura beat tutto all’italiana, un vagabondo del Dharma, anzi della Maiella. Si prende gioco dell’ambiente letterario come un collettivo Luther Blissett ante litteram. Ha frequentato poco i salotti colti e ne è scappato presto perché, rivelerà un giorno: “Non appartengo alla poesia delle lettere ma a quella vissuta, sentita nella verità del mio spirito”. E non ha frequentato nemmeno il mondo accademico e quello editoriale, ma sa come prenderli in giro entrambi stuzzicandone al tempo stesso la curiosità. Il suo nome comincia così ad apparire su giornali e riviste letterarie dell’epoca e i suoi versi ad attirare l’attenzione delle giurie. Come quella aquilana del premio “La Madia d’Oro”, primo e vero riconoscimento che gli viene attribuito nel 1970 per il suo poemetto Gilgamesh. L’introduzione che farà Giuseppe Porto alla pubblicazione dell’opera, per la prima volta con un editore, è tutto dire: “La poesia di Clemente Di Leo scaturisce dalla roccia, dagli stagni, dalla zolla, dalle cantine, dalle carte del tressette, dal sole. È tutto strano nella vita e nell’opera di questo abruzzese cresciuto come un toro, ribelle e spavaldo, di questo avversario della letteratura e del commercio culturale, autodidatta dalle molte e disordinate letture: ma tutto vi è autentico, come un poderoso muggito, un’eruzione o un sisma, o come un’inondazione e un’esplosione stellare, o anche come il grugnito dell’amico maiale e la morte di un fiore”.
Dirupi d’Abruzzo
Dirupi d’Abruzzo sono la mia reggia.
L’ho colorata d’azzurro con la mia voce
frantumata in getti di parole.
’ magnifico essere poeta
E’ magnifico essere poeta.
Hai in gola un vaso di marmellata
e nelle viscere un velo di seta
che preso anche da un’aquila
o da un missile
e tirato per sempre negli spazi
non si arrende mai, della sua infinitezza anzi
può avvolgere tutto l’universo.
Dai pori del tuo corpo senti crescere gelsomini
e il loro delizioso profumo
stura il muco delle tue narici.
Stai come un dio su un fiume solenne
che ti trasporta e lava
il giallo schifoso delle tue orecchie.
“…Io che se muovo un dito posso realizzare i miei
sogni
questa notte voglio andarmene tutto solo
dove i sogni non si consumano
lieto come un garzone un po’ picchiato
che ha mille lire in tasca … .
Voglio romperla con te, Vita, strega insaziabile
che già hai bruciato il mio ultimo passo
e mi rubi di bocca la parola più fresca..
Lascio la schiena su questa muraglia
e gli occhi a perdersi in questo
cielo stracarico di stelle.”
(da ” Gilgàmesh”)