Le nuove stanze della poesia: Peace, My Heart di Rabindrinath Tagore

Una poesia di Rabindrinath Tagore per l’appuntamento con la rubrica a cura di Valter Marcone.
La poesia di Rabindrinath Tagore “Peace, My Heart” pubblicata nella sua opera “Il giardiniere” è una invocazione alla pace del cuore che è un’altra declinazione del senso e del valore della pace . Trovare la pace di fronte alla morte imminente è per Tagore il suggello della vita.
La poesia di Tagore mi permette di esplorare il valore della parola “pace” secondo le numerose implicazioni che questa parola ha. Dice Eugenio Scalfari nel suo libro “Alla ricerca della morale perduta” edito da Rizzoli nel 1995 proprio nel primo capitolo “Quando le parole diventarono mute e ingombrarono il cielo “che quando le parole diventarono mute ,è vero , la buglia non ebbe più cittadinanza ma tutto il resto fu messo in scacco: l’illusione, l’ironia ,caddero le sfumature , fu difficile risalire alle sensazioni, si indebolì la memoria e via di questo passo . Scalfari nel libro si dibatte tra il pensiero di Voltaire e quello di Pascal , propendendo per quest’ultimo. Ma la citazione di Scalfari mi permette di dire che appunto la parola “pace” non deve essere una parola congelata , anzi , appunto come fa Tagore, una parola che raccoglie e mette insieme una serie di declinazioni. Qui Tagore parla del valore della pace di fronte alla morte imminente. Il poeta sembra domandarsi in questa composizione come si muore. E soprattutto che cosa rappresenta la morte per la vita. Concludendo forse che la morte in pace, ovvero frutto di una riconciliazione con tutto e con tutti è “completezza”.
La morte è un paradosso. Perché da un lato è lacerazione, rottura, solitudine, incomunicabilità ma dall’altro lato è “sorella morte”. In altre parole, dinanzi alla morte si ha la rottura ma anche riconciliazione. La morte ci mette di fronte al mistero dell’uomo che ci spinge ad interrogarci continuamente su che cosa è la vita. Nella cultura occidentale si tende sempre più spesso a rimuovere la morte. mentre prima era il sesso. C’è un tentativo di rimuoverla, perché ci provoca, ci trova impreparati. La morte è diventata un tabù. Un tempo c’erano i corsi per prepararsi alla morte, basti pensare all’Apparecchio alla morte di S.Alfonso Maria de’ Liguori.
Philipe Ariès, storico francese, ha cercato di analizzare l’evoluzione dell’atteggiamento umano di fronte alla morte , soprattutto in Occidente. Per questo nella sua opera ha esaminato testi letterari, opere d’arte e persino sepolture e testamenti. Ariès dunque nel suo “Storia della morte in Occidente: dal medioevo ai giorni nostri “pubblicato in Italia da Rizzoli nella collana BUR nel 1998 ricorda che per molti secoli la morte è vista come il punto di arrivo della vita e uno dei tanti momenti della stessa. .L’uomo non cerca né di sottrarvisi né di esaltarla. E’ vita come un evento pubblico. La morte migliore” è quella annunciata agli altri dal morente stesso, il quale, nella consapevolezza del suo sopraggiungere, ha il tempo di prepararsi. Dal XII al XVII secolo la morte continua ad essere un avvenimento pubblico, seguito immediatamente da un altro strettamente individuale: il giudizio universale. Si crede infatti che l’uomo alla sua morte riveda tutta la sua vita e venga subito giudicato. Tra il XVII e il XIX secolo l’uomo della civiltà occidentale tende a dare alla morte un senso nuovo, esaltandola e drammatizzandola. Non si vive più la morte delle persone che ci sono intorno con tranquillità ma con una forte emozione . Si tende a non accettare più la separazione e il solo pensiero della morte disturba la vita stessa . Nel XX secolo, nell’epoca della modernità e dell’industrializzazione, l’atteggiamento di fronte alla morte subisce una rivoluzione: L’uomo viene privato della sua morte”. Non si muore più infatti nel letto di casa, ma all’ospedale, non circondati dai propri parenti, ma dai medici. La morte non è più vista né come un avvenimento normale” né come qualcosa da esaltare, bensì come un fallimento della medicina. Tanto che Ariès definisce la morte come un tabù. Il lutto diventa strettamente privato, un dolore da superare da soli e nel modo più veloce possibile. Si cerca di nascondere la morte stessa sia al malato, per risparmiarlo dalla paura che ne può avere, sia ai bambini, che al contrario nei secoli precedenti assistevano i loro cari nel momento terminale della loro vita. Ma oggi più che di morte si parla di tempo della morte ovvero della possibilità di accorciare l’eternità di uno stato incomprensibile per l’uomo moderno che può fare solo l’esperienza della morte degli altri e non della sua come d’altra parte è sempre stato nel tempo . Accorciare questo stato proprio ricorrendo a ipotesi fantascientfiche, ma non troppo. Oggi si parla di mind uploading, cioè della scansione del cervello per la sua digitalizzazione e caricamento in rete; si parla di ibridazione uomo-macchina che via via comincia ad interessare molto di più rispetto a quella uomo-animale. In quest’ultimo caso è sufficiente far riferimento a tutti i nuovi sistemi di protesi che implementano tecnologie ulteriori rispetto ai cinque sensi umani: la protesi di una mano potrebbe avere in sè diverse modalità d’uso che potrebbe ampliare le funzionalità di una mano naturale! La tecnologia con la sua miniaturizzazione entra sempre più nel corpo umano. Già è possibile impiantare retine artificiali nell’occhio umano. Grazie alla tecnica evitiamo delle sofferenze, sconfiggiamo alcune malattie, e così posticipiamo la morte. Ma… qual è il limite? Fino ad ora abbiamo pensato che Ciò che appartiene alla condizione umana è un’immortalità che però dice un’altra vita, non un prolungare le condizioni stesse di questa esistenza, o addirittura cambiandone la natura in robot.
Rabindranath Tagore, chiamato talvolta anche con il titolo di Gurudev, nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur nato a Calcutta il 7 maggio 1861 e morto il 7 agosto 1941
Poeta, prosatore, drammaturgo e filosofo bengalese, nacque il 6 maggio del 1861 nell’antica residenza famigliare di Jorasanko, a Calcutta , da una famiglia appartenente all’aristocrazia del Bengala di cui ha raccontato anche attraverso i ricordi della sua esistenza la vita culturale, artistica, religiosa e politica . Per la vita le fonti sono costituite dai ricordi narrati dallo stesso autore:
• Tagore R., Ricordi, Vol I e vol II ( 1917 My Reminiscences), traduzione di Antonio Fuortes, Carabba, Lanciano 1928.
• Tagore R., Oltre il ricordo (1917 Jivansmrti), traduzione dal bengali di Brunilde Neroni, Sellerio, Palermo 1987.
• Tagore R., A quel tempo (1940 Chelebela – My Boybood Days – Souvenirs d’enfance), tradotto da una pubblicazione francese, Gallimard 1964, a cura di Luciano Tamburini, Einaudi, Torino 1987;
e dalle biografie presenti nelle edizioni italiane:
• Odette Aslan, Tagore. La vita il pensiero i testi esemplari, traduzione di Palmiero Perugini, Accademia 1973.
• Biografia contenuta nel volume Tagore R., Ghitangioli, a cura di Marino Rigon con una prefazione di Aurobindo Bose, Guanda, Milano, 1975.
Nel 1912 compie il terzo viaggio in Europa. Il grande poeta irlandese W.B. Yeats, entusiasta dell’opera del poeta scrive la prefazione all’edizione inglese di Gitanjali (Canti d’offerta). nel 1913 pubblica The Gardner, The crescent moon e Sadhana. E nel 1913 viene insignito del premio Nobel con la seguente motivazione: “Per la profonda sensibilità, la freschezza e la bellezza dei versi con i quali, con consumata capacità, ha reso il proprio pensiero poetico, espresso in inglese con parole proprie, parte della letteratura occidentale”.
Pace, cuore mio, lascia il tempo per
la separazione sia dolce.
Lascia che non sia una morte ma completezza.
Lascia che l’amore si sciolga nella memoria e nel dolore
in canzoni.
Lascia che il volo attraverso il cielo finisca
nella piegatura delle ali sopra il
nido.
Lascia che sia l’ultimo tocco delle tue mani
gentile come il fiore della notte.
Stai fermo, o bella fine, per a
momento e pronuncia le tue ultime parole in
il silenzio.
Mi inchino a te e alzo la mia lampada
per illuminarti sulla tua strada.