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Mare fuori, carceri minorili e rieducazione: il primo nemico è la dispersione scolastica

Mare Fuori, la serie Rai da record continua a registrare grande successo di pubblico. Vite giovani, quelle raccontate: perché si arriva a trasgredire? Come ricominciare? L'approfondimento

Mare fuori. L’infinito delle onde oltre le sbarre: è il mondo che scorre senza fermarsi, neanche quando si chiude a chiave la porta della cella.
La serie Rai da record continua a registrare grande successo di pubblico, anche tra i più giovani. E proprio diverse vite giovani vengono raccontate: ragazzi che si sono persi e che pagano per reati non sempre volontari. Ragazzi la cui crescita, a un certo punto, si è interrotta.
Eppure, c’è ancora tanta speranza là fuori. Oltre le onde, verso una nuova libertà.

Mare fuori, storie di libertà persa – e a volte ritrovata – nella cornice dell’IPM di Nisida (Napoli), l’Istituto penitenziario minorile.
Famiglie, affetti, amicizie e un sistema, quello in cui a comandare è la Camorra, nel quale i giovani si ritrovano immersi, da sempre.
Se è vero che si apprezza il valore di qualcosa soltanto quando perdiamo questo qualcosa, è anche vero che perdere la libertà per chi si ritrova, all’improvviso, in carcere potrebbe scatenare una collera difficilmente controllabile.
Come si può superare questa rabbia? E come, soprattutto, si può riacquistare la propria libertà?
Di serie tv in serie tv, corre in nostro aiuto una citazione che arriva da un altro grande fenomeno seriale che ha conquistato milioni di spettatori in tutto il mondo: Lost.

“Ero uno che si arrabbiava…continuamente. Ero frustrato”, dice John Locke a una disperata Sun che, sull’isola in cui è precipitata, non ritrova più la sua fede nuziale.
“E adesso, non sei più frustrato?”, chiede Sun.
“Non sono più sperduto”.
“Come ci sei riuscito?”
Nel modo in cui si ritrovano le cose perdute. Ho smesso di cercare“. 
Può bastare smettere di cercare, per ritrovarsi e ritrovare la propria libertà? Probabilmente, la risposta sta in cosa si cerca e, soprattutto, nel come si perseguono gli obiettivi prefissati. Spesso, un adolescente che finisce in prigione è protagonista di quella che la letteratura definisce “carriera deviante”: un processo che non nasce dall’oggi al domani e che prende vita a causa di un non riconoscimento della libertà stessa. Mare Fuori ce ne ha offerto diversi esempi. Ne abbiamo parlato con l’esperta Chiara Gioia, psicologa e psicoterapeuta, che nella sua formazione ha maturato esperienza anche nel carcere minorile dell’Aquila.
LIBERTÀ – “La libertà è un bene sia individuale che collettivo. Se un minore intraprende il processo definito ‘carriera deviante’ – fino ad arrivare a commettere un reato – c’è privazione di libertà poiché non si è individuato cos’è realmente la libertà.  Questo processo di carriera deviante è probabilmente iniziato tempo prima, con atteggiamenti trasgressivi sottovalutati o ignorati. E la trasgressione è negativa quando cade nella devianza, arrecando un danno a terze persone, alla collettività che ci sta intorno e, appunto, alla loro libertà. Il punto di partenza dovrebbe essere sempre e solo uno: la libertà deve essere riconosciuta e, quindi, intesa come un valore fondamentale dell’essere umano”.

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LA CONOSCENZA E LA FORMAZIONE – “Oggi – evidenzia la psicologa e psicoterapeuta – possiamo pensare alla libertà come a una realtà che conquistiamo anche attraverso lo studio, secondo il principio ‘Il sapere rende liberi’. Conoscendo, quindi, siamo padroni e consapevoli delle nostre scelte. Ma cosa accade quando un ragazzo trasgredisce la legge e finisce in carcere? È plausibile che il concetto di libertà per alcuni giovani – soprattutto se vissuti in contesti violenti e di criminalità – sia una sorta di atto di forza. Cioè assumere facoltà di comportarsi in un certo modo rispetto a un sistema, alle istituzioni e alle regole vigenti. In questi stessi casi, in senso metaforico, allora l’Istituzione carcere dovrebbe rappresentare il senso paterno, vale a dire quel senso d’autorità presumibilmente mancato nel percorso di crescita dei ragazzi e, al tempo stesso, dovrebbe rappresentare simbolicamente anche una funzione materna nel ‘rieducare’ quei giovani. Poiché la realtà del carcere non va assolutamente intesa quale luogo esclusivamente punitivo per il reato commesso. E, a tal proposito, negli Istituti penitenziari lavorano una serie di professionalità che hanno l’obiettivo comune di rieducare i detenuti“. Dall’educatore allo psicologo, fino all’assistente sociale.

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RIEDUCARE – “Gli educatori – precisa Chiara Gioia alla nostra redazione – stilano un piano rieducativo da far seguire ai detenuti: in base al reato compiuto, alla loro anamnesi, alla loro storia personale, alla loro appartenenza culturale. Ogni professionista che accompagna i detenuti nel loro percorso all’interno del carcere attua il suo intervento, secondo un piano che è finalizzato al reinserimento dell’individuo nella società. Ma è anche la società a doversi rendere conto di avere delle ‘colpe’: è essa stessa parte di quel caso di ‘fallimento sociale’ “.
Quella società, infatti, “può essere stata poco attenta a una forma di disagio, di sofferenza, di disadattamento. Può essere in parte corresponsabile dell’arresto del percorso formativo di una persona. Del resto – evidenzia Chiara Gioia – quando si giunge ad un comportamento trasgressore della legge, tutti i singoli nuclei sociali hanno in un certo senso fallito.
La famiglia, la scuola… Si consideri che ogni persona, in questo caso specifico ogni ragazzo, è sempre anche il riflesso di dove e di cosa ha vissuto. E se questi ragazzi si perdono, qualcosa manca. Qui interviene il Carcere, mettendo in atto un percorso che va ben oltre la necessità punitiva. La pena ha funzione rieducativa, come specifica anche l’Articolo 27 della nostra Costituzione, proprio perché il processo educativo di quella persona, prima che la stessa finisse in carcere, è stato interrotto. Ed è quindi necessario un lavoro di ‘rete’ per individuare i punti in cui intervenire”. 

FAMIGLIA E SCUOLA – “Hanno 15 anni e gli occhi pieni di rabbia. Occhi pieni di vuoto. Hanno 18 anni e lo sguardo è perso, pure sfidante. Hanno occhi che chiedono aiuto senza sapere quale aiuto, senza sapere a chi chiedere aiuto.
La scuola l’hanno abbandonata ma nessuno li ha mai cercati. Non la preside ma neppure gli assistenti sociali che: o non ci sono o sono troppo pochi per certe periferie. E madri, padri, quelli che c’erano non ce l’hanno fatta. 

Quando ho intervistato adulti finiti in carcere per reati gravissimi ho chiesto loro: ‘Cosa cambieresti nella tua vita?’ Quasi tutti mi hanno dato la stessa risposta: ‘Sarei andato a scuola, perché se nasci in quel quartiere, in quel palazzo o da quella famiglia è solo tra i banchi di scuola che puoi intravedere la possibilità di una vita alternativa a quella già scritta per te da altri’ “. 
Recita parte del monologo letto a Sanremo dalla giornalista e conduttrice Francesca Fagnani, che ha portato sul palco il tema delle carceri minorili italiane, proprio qualche sera prima della presenza di una parte del cast di Mare Fuori all’Ariston, per promuovere la terza stagione della serie. Un tema, quello delle carceri minorili, del quale si sta tornando a dibattere proprio in queste settimane, sulla scia del grande successo della serie tv che, tra qualche settimana, vedrà la conclusione della sua terza stagione.
“Partiamo dal presupposto che famiglia e scuola sono due agenzie educative per eccellenza: dovrebbero quindi garantire una sana formazione ad ogni individuo. Nel concetto di sana formazione è inclusa una preparazione anche dal punto di vista della comunicazione, intesa non semplicemente come la capacità di saper usare bene le parole, ma saper stare in relazione con l’altro. Accade spesso, invece, che la comunicazione manchi addirittura tra famiglia e scuole ed è qui che si va incontro al rischio di non accompagnare più il ragazzo nel suo percorso di crescita e formazione identitaria, spesso travagliato. Poiché, è importante ribadirlo, nella maggior parte dei casi il reato è preceduto da una serie di atteggiamenti o comportamenti che rappresentano autentiche ‘deviazioni’ da non sottovalutare”. 

Perché si arriva a trasgredire?
“Le cause possono essere svariate – sottolinea ancora Chiara Gioia – una, ad esempio, è l’eccesso di libertà che si riscontra in taluni casi. I ragazzi hanno a disposizione un tempo che rischia di essere eccessivo: dal momento in cui escono da scuola, per loro c’è l’intero pomeriggio da gestire. Per un adolescente, se non adeguatamente accompagnato, c’è il concreto rischio di perdersi quando manca una scansione, l’organizzazione della giornata. Gli adolescenti che si trovano a doversi autogestire non vengono, in questo modo, educati e supervisionati come dovrebbero, soprattutto in quelle situazioni in cui devono scegliere cosa fare, il comportamento giusto da adottare. A quell’età non si hanno a disposizione gli strumenti adatti per poter comportarsi in maniera matura e consapevole. Strettamente legato all’eccesso di tempo in autonomia, poi, c’è un’altra possibile causa della trasgressione. I vuoti.
Se uno o entrambi i genitori sono assenti, per l’adolescente si configura un vuoto che accade venga riempito con comportamenti disfunzionali. Tornando nella specifico della serie tv, poi, c’è anche il ragazzo che finisce in carcere quasi come risultato consequenziale della dimensione culturale in cui è cresciuto. Un caso che, purtroppo, rispecchia anche la nostra realtà e non solo il contesto della fiction. Per questi giovani il carcere rischia di essere quasi ‘normale’ “. 

DISPERSIONE SCOLASTICA – Neanche la dispersione scolastica nasce dall’oggi al domani.
“Per il personale scolastico è importante capire fin dal principio i primi segnali d’allarme. Se i bambini vanno a scuola senza zaino, ad esempio, bisogna attivarsi per capire come mai. Ancora, se ci sono assenze ripetute bisogna cercare di approfondirne le motivazioni. Una serie di comportamenti sottovalutati porta al vero rischio di dispersione scolastica: è fondamentale l’accompagnamento nel corso del cammino formativo e scolastico di ogni ragazzo. È importante che la scuola riesca a seguire i casi di dispersione che si registrano all’interno del suo perimetro, così come è importante, da parte della famiglia, riconoscere il problema. La famiglia non deve far finta di niente, soprattutto quando allertata dalla scuola. Deve esserci comunicazione tra le due agenzie di formazione.
Oggi, fortunatamente, la scuola si sta aprendo anche al supporto psicologico. Un canale d’aiuto ulteriore che garantisce una forma d’ascolto e, a tal proposito, posso dire che le richieste sono moltissime attualmente: e non perché lo psicologo ‘va di moda’ – come si sente dire in giro – bensì perché c’è profonda necessità di essere ascoltati“. 

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IL MARE FUORI, SORGENTE DI SPERANZA
“Il mare ha un significato legato al simbolo dell’acqua È considerato, per eccellenza, il simbolo dell’inconscio. Rappresenta, dal punto di vista analitico, una forma di dissolutio, cioè di trasformazione: con il suo fluire, le sue onde, la musica che queste creano.
È come se rappresentasse il flusso delle immagini che albergano nella psiche di ognuno di noi. L’acqua, del resto, ha la capacità di penetrare, scioglie, in un certo senso ammorbidisce, purifica e simboleggia nuova vita. Nel caso specifico della serie Mare fuori, l’acqua potrebbe rappresentare la metafora del bisogno di ogni individuo rinchiuso nell’IPM – che vede il mare oltre le sbarre – di fare un viaggio nelle profondità e nei meandri della propria psiche: per andare avanti. Per andare oltre, come l’acqua del mare: così da non restare stagnanti. Non bisogna fermarsi a quell’errore compiuto, costato la nostra libertà, ma bisogna riprendere a camminare sulla strada giusta”. 
Proprio come fa il mare.

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