Suicidi all’Università, parla Matteo: “8 anni per la triennale, parlate del vostro disagio”

L’aquilano Matteo si racconta, dopo i recenti suicidi all’Università. “Otto anni per la mia prima laurea triennale. Mi sono aperto con genitori e amici e questo mi ha aiutato. Oggi ho 2 lauree e un lavoro”
Suicidi all’Università – “Oggi ho due lauree triennali, eppure per prendere la prima ho impiegato 8 anni. Vorrei raccontare la mia storia per lanciare un messaggio a chi è in difficoltà con l’Università: parlatene. Non nascondete i vostri disagi. È importante che abbiate dei punti fermi”. La storia di Matteo.
“Ho pensato diverse volte di lasciare tutto, poi sono andato avanti. Oggi ho due lauree e un lavoro: vorrei poter fare qualcosa di buono e aiutare i ragazzi del territorio che presentano disabilità. E lo racconto con la speranza di aiutare chi si sente oppresso. Ci sono troppi suicidi all’Università“. Dopo i recenti fatti di cronaca che hanno visto studenti universitari togliersi la vita, un giovane aquilano ha deciso di raccontarsi per lanciare un messaggio.
Sempre più spesso, ormai, i quotidiani nazionali e locali raccontano di studenti universitari alle prese con disagi profondi: percorsi di studio che diventano tunnel bui, in cui si fa fatica a trovare una via d’uscita, oppressi da tutto ciò che c’è intorno. Dall’amico che si laurea con il massimo dei voti. Dalla studentessa che fa parlare i giornali per la sua laurea a tempi di record. Da genitori che, a volte, ti caricano di aspettative troppo pesanti. Ancora, da un sistema universitario che ti trasforma in un “fuori corso” e ti fa sentire, per questo, sbagliato. Fuori tempo, proprio perché fuori dal sistema.
Il Capoluogo ne aveva parlato qualche mese fa con la psicologa ed analista aquilanaChiara Gioia, approfondendo cause e possibili soluzioni per superare simili difficoltà e sottolineando l’importanza che riveste l’ascolto.
E il messaggio che Il Capoluogo raccoglie oggi, vuole sottolineare proprio quanto sia fondamentale, da parte dei giovani in difficoltà, circondarsi di persone che sappiano ascoltare, capire e non giudicare. Narrare il proprio disagio e la propria sofferenza, affrontare quel momento e trovare la chiave per andare avanti. Senza lasciarsi sopraffare. Affinché non ci siano più suicidi all’Università.
“L’ultimo caso di gesto estremo legato al mondo dell’Università mi ha scosso in modo particolare – spiega Matteo – Già da qualche tempo volevo lanciare un messaggio, rivolgermi a tutti quei giovani studenti che, oggi, si sentono come io mi sono sentito qualche anno fa, quando per ben 8 anni ho inseguito l’obiettivo di laurearmi in Scienze Motorie.
Otto anni, sì. Tanto è durato il percorso universitario che mi ha portato a conseguire la mia prima laurea triennale a L’Aquila. Ero in difficoltà, ma sono riuscito ad aprirmi sia con i miei genitori che con i miei amici. Tutti loro mi hanno ascoltato e supportato: senza mai giudicarmi. Ho pensato molte volte di abbandonare gli studi, poi con la vicinanza dei miei e complice anche il tempo in più che, paradossalmente, ha portato la pandemia sono andato avanti e sono riuscito a concludere gli studi”.
“Penso di essere stato fortunato, poiché ho avuto il sostegno di cui avevo bisogno. Ma vorrei dire a chi si sente solo, abbandonato a sé stesso e ai suoi problemi universitari, che è importante trovare qualcuno con cui parlare. Qualcuno che ascolti il nostro disagio: un genitore, un fratello, un amico, uno psicologo. L’invito è ad aprirsi, confidarsi.
Io l’ho fatto e sono riuscito a sbloccarmi: ho terminato gli studi e conseguito la mia prima laurea triennale, per poi decidere di intraprendere un altro percorso di studi in TNPE, Terapia della Neuropsicomotricità dell’età evolutiva. Così ho conseguito la mia seconda laurea triennale. Oggi lavoro. Fino a qualche mese fa ero a Roma, adesso sono tornato a L’Aquila dove sono nato e cresciuto. Proprio qui vedo il mio futuro: la mia idea è lavorare nella mia città per poter aiutare i ragazzi con disabilità”.
L’invito ai giovani ad aprirsi è accompagnato, quindi, anche da una sottolineatura importante riferita alla società e a chi ci sta intorno. “Bisognerebbe cambiare il modo di vedere le cose. Che senso ha fare paragoni con percorsi di altre persone, magari di epoche differenti? I tempi sono cambiati ed è cambiato il mondo. Per un ragazzo alle prese con difficoltà universitarie sentir dire ‘Io alla tua età…’ non è un aiuto, anzi: tutto il contrario. È un’ulteriore forma di pressione, un rimprovero che nasce da un sistema costruito su canoni che non sono stati stabiliti da nessuno, ma che si sono stratificati nel tempo. Invece, ogni percorso ha il suo tempo: ognuno scrive la sua storia e ha il diritto di farlo a modo suo, senza per questo sentirsi giudicato”.