Le nuove stanze della poesia, Ottiero Ottieri

Finzioni e dubbi nelle poesie di Ottiero Ottieri per l’appuntamento con la rubrica a cura di Valter Marcone.
La collana «Interno Novecento» dell’editore Interno Poesia riporta in libreria l’esordio in poesia, pubblicato nel 1971 da Bompiani, dell’allora già celebre narratore “industriale” Ottiero Ottieri.
Come si legge sulla pagina web dell’editore è una riedizione curata nei minimi dettagli, grazie ai contributi di Edoardo Albinati e Demetrio Marra, per un volume accolto dalla critica come «un libro bellissimo» (Pasolini) e un «oggetto bruciante […], alieno nel senso profondo» (Zanzotto). Un’opera prima nata da un’intuizione: per cogliere “dal vivo”, cioè osservandoio in atto, quindi esorcizzandoli, i meccanismi, i significati ritmici del pensiero ossessivo, per natura interrotto, lacunoso, “chiuso”,scrivendo versi o le «righe corte», cioè la forma “chiusa” della poesia. La patologia viene esposta, allora, portata alla luce attraverso una scrittura paradossalmente non metaforica, quasi “filosofica”: l’autore si ricalca sul foglio, diviene personaggio in lotta con il cancro della mente, con le funzioni perverse che soffocano quelle sentimentali e sessuali. Al centro il dubbio: «Dal dubbio deve essere / occupata la mente. / Altrimenti che pensa la mente? / Che fa la mente imperplessa?».
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
lasciatogli libero dal pensiero ossessivo.
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo.
Non lavora, non esce, non mangia,
all’infinito perfeziona la tessitura d’aria
con un’aderenza perfetta
schiacciata incollata alla cerebrale
spoletta. Schifiltosità disperata
verso ogni dolce contaminazione,…..
Ottiero Ottieri nasce a Roma nel 1924, muore a Milano nel 2002. Estremi biografici che danno una direzione immediata. Con una indicazione precisa :“Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere”, come scrive in La linea gotica. Taccuino 1948-1958 (Bompiani, 1963). La strada da percorrere è chiara fin dall’inizio quando comincia a collaborare con Mondadori nel 1948.. E’ una strada che porta per ragioni di lavoro al centro industriale ed economico d’Italia. Ed è comunque una partenza . Forse la stessa per esempio di Luciano Bianciardi – non si conoscono i rapporti tra i due autori – pur emergendo il denominatore comune della condizione psicologica dello “spatriato” (direbbe D’Arrigo), dell’intellettuale in cerca del “popolo”. Esiste una lettera, però, la cui bozza è conservata al Centro Manoscritti di Pavia, successiva al 1955, in cui questa “complicità” è manifesta. Insomma Ottieri lavora in fabbrica in luoghi diversi prima al nord ,poi al sud d’Italia, poi ritorna al nord rincorrendo una storia che diventa una finzione e una ossessione dalla quale nasce una poesia piena di dubbi che è sostanzialmente una folgorazione di mezzo ,l’attesa tra una prosa e l’altra , una pausa anch’essa spesso piena di finzioni e dubbi come la pagina in prosa. .
Ottieri, arrivato a Milano, incomincia a lavorare come assistente di Guido Lopez, capo dell’ufficio stampa della Arnoldo Mondadori Editore. Si dedica con grande entusiasmo a studi sociali e psicologici ( discipline che fanno parte della sua professione) conosce Cesare Musatti , frequenta assiduamente la sede del Partito Socialista Italiano milanese e inizia a collaborare al quotidiano Avanti! Nel 1950 a Lerici sposa Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani , conosciuta a Roma in casa di Brianna Carafa il 2 giugno 1946; l’anno dopo inizia a dirigere la rivista mensile di divulgazione scientifica La Scienza Illustrata. Il suo primo libro Memorie dell’incoscienza, iniziato a scrivere nel 1947 (con alcune correzioni del 1952) e proposto dallo stesso Elio Vittorini viene pubblicato nel 1954 .
Quando si ammala era stato da poco assunto, con l’incarico di selezionatore del personale, all’Olivetti, l’industria che credeva nei manager intellettuali, Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Franco Fortini. Avrebbe dovuto cominciare nel mese di luglio e Adriano Olivetti, figura di industriale colto e illuminato, gli spedì ogni mese lo stipendio per tutto il periodo della malattia. Impossibile restituirlo. Una volta guarito, gli propose di riprendere il lavoro di selezionatore in un clima migliore di quello di Ivrea o di Milano, nella sede della nuova fabbrica sul mare di Pozzuoli.
Al momento della guarigione , Adriano Olivetti gli offrì di restare a Pozzuoli come direttore del personale della fabbrica, ma Ottiero, a malincuore, rinunciò, temendo di non aver abbastanza tempo per scrivere. Tornò a Milano dove si accordò per un nuovo contratto di consulente a metà tempo. Olivetti gli offrì la promozione a dirigente che non si sentì di accettare, considerandola privilegio eccessivo nei confronti di chi lavorava tutto il giorno.
Ottieri è celebre soprattutto per la sua produzione “industriale”, in prosa (ispirata alla Weil, profondamente): Tempi stretti (Einaudi, 1957), Donnarumma all’assalto, (Bompiani, 1959), La linea gotica, anticipato dal Taccuino industriale, assemblato da Elio Vittorini per il Menabò n. 4 (1961). Tutti scritti “da dentro” l’esperienza di fabbrica, un interno-esterno però, essendo Ottieri «psicotecnico» e cioè selezionatore del personale, lontano spesso dalla vita degli operai e quindi proprio da quel mondo che a volte vorrebbe indagare . Prima alla Olivetti di Ivrea e di Milano e poi per ragioni di salute a Pozzuoli dove il clima sembra giovargli di più . Un lavoro quest’ultimo in una fabbrica progettata in modo avveniristico da Luigi Cosenza.
Si avvicinò alla poesia tardi, in senso assoluto e in senso relativo, se pensiamo anche ai tanti scrittori che conducevano le due “strade” parallelamente fin dall’inizio (Fortini, Pasolini, Volponi). E questo “ritardo” non favorisce di certo il suo riconoscimento. E’ però Andrea Zanzotto che in qualche modo lo laurea nel 1986 con un giudizio espresso su Il Corriere della sera , poeta, sottolineando come la sue raccolta di poesia : Tutte le poesie. Il pensiero perverso. La corda corta, con ottanta nuove poesie, uscito quell’anno per Marsilio, sia “un libro della massima importanza nella poesia italiana del dopoguerra, anche se scritto da un romanziere “. Scrive per la prima volta in versi ne Il pensiero perverso (Bompiani, 1971). “La poesia è un’irruzione razionale, nasce senza che io la premediti” dice in un’intervista a Lea Vergine (Gli ultimi eccentrici, Rizzoli, 1990 ). “Sono un narratore, tutti i miei libri di poesia nascono come per miracolo. O forse nascono da un fenomeno di estenuazione della prosa”.
E aggiunge: “Non sopporto più le descrizioni, le lentezze della narrazione in prosa. Coi versi posso andare dritto al centro del problema e poi altro vantaggio, la poesia è più vicina al procedimento mentale psicoanalitico, quello che in linguaggio chic si chiama associazione involontaria e che detto terra terra suona: andar di palo in frasca”.Per pudore e rispetto di quella che considera vera poesia, Ottiero preferisce definirla prosa ritmica o “righe corte” la sua poesia non metaforica dove il pensiero ossessivo arriva sulla pagina senza mediazioni e lo scrittore ingaggia con il malato un corpo a corpo per ingannare la malattia e trasformare la sofferenza psichica in occasione di invenzione, di gioco, di manipolazione infinita.”Scrivo nel pochissimo tempo lasciatomi libero dal pensiero ossessivo… “.
La figlia Maria Pace Ottieri sul sito ottierottieri.it riporta questa breve descrizione biografica che suo padre fa di se stesso : «Dal fascismo adolescenziale all’antifascismo il più accanito, dall’industria e dall’osservazione complice dell’esperienza operaia, al set, al jet set, alla clinica e all’amore. Voleva essere un sindacalista playboy. Sull’industria il libro più noto è Donnarumma all’assalto. Sul set L’impagliatore di sedie, sul jet set I divini mondani, sulla malattia morale L’irrealtà quotidiana e in versi, o meglio in cadenze, La corda corta. Sull’amore, I due amori e Vi amo. È un bipolare, vale a dire che dalla sua depressione zampillano euforie pericolose, perché scavano la fossa alla prossima, dolorississima caduta. È un bipolare secondo Cassano, ossessivo e compulsivo. Secondo lo psicoanalista Zapparoli, non tollera il piacere, ha bisogno della continuità della sofferenza. Non può scrivere, vivere se non si intossica: alcol, sigarette, tè forte, caffè. Esistenza malsana. Il suo pancreas comincia a risentirne. Che muoia presto? Sotto l’ansia permanente saltano le valvole della macchina meravigliosa. Lei ha un terrore della morte, direbbe Zapparoli, a Milano. Le allungo una buona vita, dice, a Pisa, Cassano».
E’ una biografia per l’Autodizionario degli scrittori italiani di Felice Piemontese (Leonardo, 1989) scritta dallo stesso Ottiero Ottieri, autore autobiografico per eccellenza, almeno secondo una delle definizioni che insieme a quella di “scrittore della fabbrica” e “scrittore della clinica”, hanno sempre cercato di riparare alla difficoltà di catalogarlo nei generi letterari tradizionali.
Eppure, come scrive Carla Benedetti (“New York Review of Books”, 1999) «di ‘privato’ nei libri di Ottieri c’è una cosa sola: il punto da cui muove la scrittura… Ed è questa insolita parola diretta a mettere a disagio i letterati, non l’eccesso di autobiografia. Perché di fatto quanto alla materia che Ottieri accumula nei suoi testi, richiamata dalla voragine spaventosa che si apre nel soggetto che scrive (sopra a quel nulla panico che sgorga in continuazione dalla polla del suo petto di ansioso dipendente che deve perennemente saziare il craving,) essa è tale da poter contenere tutto il mondo storico e sociale in cui ci troviamo immersi».
Dal 1948 al 1958, Ottiero aveva tenuto un diario. Calvino, a cui chiese di leggerlo per primo, pur giudicandolo molto significativo e interessante, non la ritenne un’esperienza abbastanza conclusiva da diventare un libro e gli suggerì di pubblicarne una scelta su “Nuovi Argomenti”. Lunghi brani del diario di Ottiero usciranno così nel 1961, nel quarto numero de “Il Menabò”, la rivista di Vittorini e Calvino, con il titolo Taccuino Industriale, consacrandolo così il pioniere della cosiddetta “letteratura industriale”. Solo più tardi, nel 1963, l’intero diario, sarà pubblicato da Bompiani con il titolo La linea gotica e vincerà il Premio Bagutta di quell’anno.
Oltre non amare,
non lavora, poiché pensa.
Il suo lavoro è il pensiero perverso.
Pensa al lavoro comune come un inerziale
smarrimento del tempo.
Nulla del tempo può andare perduto
al sommo sovrano,
a Colui che necessita di libertà generale,
di vasto spazio, che aborre
leggi esteriori sciocche, che mai
può impegnarsi.
Le interiori leggi, sacre, ramificano in un tempio
largo quale un lago come il mare;
intatto come un’altura dove la macchina
attende in libertà totale gli scatti interni,
le improvvisazioni previste.
Il pensiero perverso non ha tempo da perdere,
perde tutto il tempo nel mondo,
mira stranito il produttore di merci,
d’opere di “pensieri”, di spassi.
chi è costui che al mattino si leva,
si lava
commette, annette attende
con normoforia l’imprevedibile vita?
Accetta
il discontinuo del mondo,
tollera!
Oh, questa relativa potenza
come misera sembra (come divina)
a Colui che necessita dell’onnipotenza
interminata, dello sconfinato Pensiero
(ossessivo), dell’attesa sovrana sul trono
mentale alto come un pimpinnacolo,
vigile periscopio cui nulla sfugge
del tondo orizzonte totale.
Il pensiero ossessivo buca il lavoro –
vizio dogmatico del mondo –
d’ogni parte, lo sfarina, lo abbatte.
Egli ha il suo lavoro
straordinario.
Il comune lavoro
è una sorda
continuità terrestre,
mancanza