Omicidio di Barisciano, si va in Appello: ricorso di Difesa e Procura

L’AQUILA – Scaduti i termini per l’Appello per l’omicidio di Barisciano. Sia la difesa che la Procura depositano il ricorso.
L’AQUILA – Scaduti i termini per l’Appello per l’omicidio di Barisciano. Sia la difesa che la Procura depositano il ricorso.
Dopo la condanna a 15 anni di reclusione a carico di Gianmarco Paolucci per l’omicidio di Paolo D’Amico, avvenuto a Barisciano nel novembre 2019, la vicenda processuale finirà in Corte d’Appello. Ieri infatti, sono scaduti i termini, e la difesa di Paolucci, rappresentata dall’avvocato Mauro Ceci, ha presentato ricorso contro la sentenza di primo grado. Nei giorni precedenti, era stata la stessa Procura dell’Aquila a presentare ricorso, ovviamente per ragioni opposte. La Procura evidentemente non è rimasta soddisfatta dalla condanna a 15 anni di carcere (e i relativi risarcimenti), avendo chiesto l’ergastolo; d’altra parte, la difesa ritiene di poter dimostrare l’estraneità di Paolucci. Così il nuovo confronto giudiziario si giocherà in Corte d’Appello.
La sentenza di primo grado: la Corte d’Assise ha condannato Gianmarco Paolucci a 15 anni di reclusione, in quanto ritenuto colpevole di omicidio ai danni di Paolo D’Amico, ma con l’esclusione le aggravanti che ha permesso l’accesso allo sconto della pena, grazie all’istanza di rito abbreviato avanzata a suo tempo dall’avvocato Mauro Ceci.
Omicidio di Barisciano, si va in Appello: “L’estraneità di Paolucci può essere provata”.
Dopo aver letto le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise dell’Aquila che lo scorso 2 novembre ha condannato a 15 anni di carcere Gianmarco Paolucci per l’omicidio di Paolo D’Amico, avvenuto nel novembre 2019, l’avvocato Mauro Ceci aveva subito valutato il ricorso in Appello, presentato nella giornata di ieri, “perché crediamo che possa essere provata l’estraneità del Paolucci”.
Diversi i punti che, secondo la difesa, vanno approfonditi rispetto alla sentenza di primo grado.
Intanto, rispetto al ritrovamento del cadavere, per la difesa non sono state evidenziate le contraddizioni delle due persone presenti, oltre ai famigliari. Nello specifico, una persona parlava di un sopralluogo effettuato per cercare la vittima che non rispondeva più al telefono, effettuato da due persone, giunte sul posto con una sola auto. Un’altra testimonianza parlava di tre persone, giunte sul posto con due mezzi diversi. Inoltre, la persona al telefono con il 112, prima che il fratello scoprisse il corpo, riferiva allarmato che D’Amico era stato ammazzato. Tutte cose che per la difesa “non hanno nessuna relazione logica con i fatti.
Capitolo a parte, quello del DNA. I dubbi, sulla presenza di una mistura sui pantaloni della vittima, ma non sulle armi utilizzate per l’omicidio. Mentre non sono state considerate le tracce singole sulla maniglia esterna del magazzino e il sangue sulla scatola di scarpe vuota rinvenuta nell’abitazione. Per la difesa, essendo stata chiusa con il lucchetto la porta di uscita del magazzino, si tratta di una “traccia importante” che va considerata, anche perché sono di DNA maschili, ma ancora ignoti, che “lasciano il campo aperto a diverse prospettazioni”.
Anche la dinamica dell’aggressione non risulta chiara, tanto che – come sottolinea la stessa difesa – in diversi passaggi della sentenza si parla di ipotesi, senza un’interpretazione univoca, come non è stato possibile stabilire definitivamente se l’aggressore era solo o c’era anche un’altra persona. Da qui la possibilità, eventualmente, di attribuire un ruolo diverso al giovane aquilano. Tutti aspetti, comunque, che cozzano con “la regola della certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Infine, i mancati riscontri che non sono stati “valorizzati”: il riferimento è alle scarpe sequestrate al Paolucci, che secondo i RIS non erano quelle che hanno lasciato l’orma sul luogo del delitto, e i mancati riscontri sulle tracce rilevate nelle auto e nelle abitazioni in uso al giovane. Il fatto che gli elementi da repertare ci fossero, ma non corrispondessero alla vittima, per la difesa rappresenta un mancato riscontro all’ipotesi accusatoria importante.
Tutte questioni che verranno valutate per l’Appello.

La ricostruzione processuale in Corte d’Assise.
Che Paolo D’Amico fosse stato assassinato è apparso subito chiaro, quel giorno di novembre 2019, in considerazione delle ferite riscontrate sul corpo. L’autopsia stabilirà che a uccidere l’uomo sono stati 22 colpi: 14 al capo, 3 al torace 2 alla mano sinistra, 1 al gluteo sinistro e 2 alle gambe. Alla fine il 55enne è morto per “grave politrauma cranio-encefalico con emorragia subaracnoidea diffusa prevalentemente in emisfero destro, ma diffusa all’interno dell’encefalo con tratti di lacerazione encefalica. Oltre a questo, a concorrere al determinismo della morte c’è anche l’insufficienza respiratoria”. La stessa autopsia ha collocato l’ora del decesso tra la notte del 21 novembre 2019 e la tarda sera del 23.
Le indagini dei Carabinieri, coordinate dalla Procura, hanno scandagliato la vita privata della vittima, ricostruendo i suoi contatti, a partire da quelli posti in essere nell’ambito del consumo e cessione di stupefacenti, in considerazione del fatto che nell’abitazione dell’uomo sono state ritrovate piante di marijuana.
L’attenzione degli inquirenti si è anche concentrata sulla posizione in cui è stato ritrovato il cadavere, che aveva i pantaloni abbassati, nonostante la cintura chiusa, e maglia alzata sul torace, evidente segno di trascinamento. Da qui la ricerca di tracce sui pantaloni, all’altezza delle caviglie, da cui la vittima presumibilmente era stata trascinata. I RIS hanno infatti rinvenuto una mistura di DNA formata dal DNA della vittima mischiato con uno ignoto. Sono quindi partiti i confronti ad ampio raggio con i contatti ricostruiti tramite l’analisi dei tabulati telefonici. Il telefono della vittima era sparito dalla scena delitto, ma gli inquirenti si sono fatti consegnare una copia della sim dal gestore telefonico, riuscendo a risalire ai dati cercati.
Tra i contatti della vittima, proprio Gianmarco Paolucci, che non ha dato il consenso al prelievo del DNA. A quel punto, i carabinieri hanno utilizzato il “metodo Bossetti”; come nel caso dell’omicidio Gambirasio, infatti, i carabinieri hanno predisposto quello che sembrava un normale posto di controllo, effettuando l’alcooltest sul sospettato, che però non serviva a sapere se il giovane aveva bevuto, ma a fare quel prelievo di DNA a cui lo stesso non si era voluto sottoporre volontariamente. Con un’attribuzione generalmente considerata certa con una probabilità statistica che supera il dieci alla sesta, la traccia del DNA sul corpo del D’Amico aveva una probabilità statistica del dieci alla ventitreesima con il DNA di Paolucci. A quel punto il cerchio si è chiuso, in considerazione degli elementi indiziari raccolti, che per i giudici confermano la colpevolezza del giovane. Tra gli elementi indiziari, i contatti tra i due che si intensificano fino al giorno dell’omicidio, il telefono di Paolucci che aggancia una cella telefonica nella zona dell’abitazione della vittima, nell’arco temporale in cui è avvenuto l’omicidio.