È arrivato l’ombrellaio: la storia degli ombrellai di Secinaro

È arrivato l’ombrellaio, accomoda piatti e ombrelli. La storia degli ombrellai (ombrellari) di Secinaro, che partivano dal paese alle pendici del Sirente per lavorare nelle grandi città
È arrivato l’ombrellaio, accomoda piatti e ombrelli.
Gli ombrellai ( o anche, ombrellari). Mestieri antichi che il tempo, l’innovazione tecnologica – e una buona dose di consumismo – hanno portato via con sè. Ma non il loro ricordo, che ci porta dritti ai piedi del Sirente.
Secinaro, comune della Valle Subequana, può contare oggi meno di 400 abitanti. Ma nell’albero genealogico di ogni secinarese, c’è sicuramente un ombrellaio: è da qui che partivano per andare in giro per tutta Italia gli artigiani che sistemavano – o meglio – accomodavano gli ombrelli rotti.
Stecche da sostituire, buchi da rammendare, bastoni da sistemare: nulla era impossibile per gli ombrellai di Secinaro, divenuti famosi ben oltre i confini dell’Abruzzo dal quale provenivano.
E’ il 1952: Francesco “Citto” Maselli, grande regista d’impegno, scomparso pochi giorni fa, viene attirato dalle figure di questi uomini, giovani ma anche più anziani, che giravano per Roma a caccia di ombrelli da riparare. E decide di dedicare loro un cortometraggio, prodotto da Opus Film, tuttora visibile perchè presente in quel gran patrimonio della filmografia e della società italiana che è l’Archivio Luce.
“Ci siamo mai chiesti chi sono, da dove vengono, come vivono gli ombrellari?”.
Parte da questa domanda il documentario di Citto Maselli che, in dieci minuti, scruta e racconta la giornata di lavoro di un ombrellaio, spesso lontano dal paese per lavoro, e la vita solitaria delle donne di Secinaro. All’epoca di abitanti ce n’erano 2800 nel paese all’ombra del Sirente: a testimonianza di uno spopolamento feroce che ha portato via dalle aree interne d’Abruzzo migliaia di paesani, mossi dalla ricerca di lavoro e opportunità.
“Otto mesi all’anno, per le strade di Secinaro, non incontri che donne e bambini”, racconta la voce narrante. Già: perchè per mesi gli uomini di Secinaro, gli ombrellari, si spostavano nelle città più grandi per lavorare. Roma, su tutte: ma anche le grandi città del Nord. Una storia di emigrazione, non diversa da quella che ha portato in giro per il mondo milioni di italiani tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Quella degli ombrellari di Secinaro è una piccola comunità che negli anni ’50 a Roma raggiunge le 150 unità. Si conoscono tutti, anziani e giovani: gli apprendisti stanno vicino ai più esperti per anni e dividono con loro i guadagni della giornata. E si aiutano, come se fossero rimasti in paese: se uno si ammala o si infortuna, lo si aiuta e si condivide con lui cibo e denaro. Se muore, si sostiene la famiglia finchè un figlio non diventa maggiorenne.

Le giornate degli ombrellai sono lunghe e non facili e iniziano scrutando il cielo: se piove, o minaccia pioggia, la giornata volge al meglio per questi artigiani certosini. Si inizia presto, alle prime luci dell’alba: si esce dalla baracca che si condivide con altri cinque, sei paesani in periferia, e si pianifica dove andare. Grandi condomìni della periferia romana, ma anche in centro: gli strumenti di lavoro sono tutti in una cassettina sulla quale poi, ai margini della strada, di un terreno o agli angoli di un palazzo, ci si mette a lavorare con precisione e velocità.
Un’altra fase importante della giornata è la ricerca di pezzi di ricambio, nonchè di altri ombrelli da riparare e vendere: lo straccivendolo – altro mestiere ormai scomparso – diventa il fornitore di materia prima per gli ombrellari. Un kg di ombrelli rotti, all’epoca, venivano pagati 50 lire. Riciclo e riuso, diremmo ora, nell’ottica dell’economia circolare: un ritorno alle origini dei mestieri che hanno consentito una vita dignitosa agli italiani di un secolo fa.
Agli ombrelli, con il passare del tempo si sono uniti anche i piatti rotti: la manualità di questi artigiani era tale da far tornare nuovo anche un piatto di ceramica rimesso insieme con delle graffette e tanta precisione. Merito anche dell’inventiva e della capacità di riutilizzare strumenti per crearne nuovi: un manico di una stampella, un po’ di corda e un bastone con in cima una stecca appuntita poteva diventare un utilissimo trapano da impiegare per creare fori e riparare i “cocci”.
Alla preziosissima testimonianza video di Citto Maselli, che ci restituisce volti e mani di un’epoca che non c’è più, si aggiungono strofe e versi di autori abruzzesi che agli ombrellai di Secinaro hanno dedicato le loro opere. Fra questi, nel 1925, lo scrittore e insegnante Umberto Postiglione (Collezione di Almanacchi Regionali, diretta dal prof. Roberto Almagià)
“Li hai visti tante volte. Con la cassettina degli arnesi a tracolla, con un fascio di ombrelli mezzo sfasciati sotto il braccio. Sono di Secinaro, un paesello annidato nella valle Subequana, sotto il Sirente. Vanno di paese in paese, per tutta Italia, passano le Alpi. E quando per le vie di una città lontana, tu senti la loro voce; ombrellaro! accomodo ombrelli!, ti pare come un saluto della tua terra d’Abruzzo”.
Ma anche Luigi Braccili (che nelle sue opere dedicate all’Abruzzo di una volta parla anche di ombrellai di Preturo), Nino Del Pozzo, Emiliano Giancristoforo, Licia Mampieri, Giulio Marino, Marco Notarmuzi, e gli illustratori Stefano Di Vitto, Basilio Cascella, Vito Giovannelli. Figure che hanno ispirato anche delle composizioni musicali: una canzone popolare scritta da Ermete Postiglione, parente di Umberto, ricordava come “da arrete de na spalla glie se vedene spunta’ quattre meneche d’umbrelle, porte pure na cascetta (…) . Ombrellaro! Ombrellaro! Se fa tarde i ve’ la sera, j’umbrellare zitte sta, vede tante cimmenere pe’ li tette sfummecà e repenza alla casetta…”
A Secinaro non vi sono più tracce di ombrellai “puri”: dai piatti alla dismissione del lavoro, complici l’industrializzazione, l’emigrazione e lo spopolamento, il passo è stato breve. Ma ci restano queste testimonianze, di cui quella preziosissima di Citto Maselli, per tornare indietro di una vita: attimi intensi di un Abruzzo che non c’è più, ma che ha creato e diffuso saperi, ingegni e competenze ovunque.
Questo articolo è presente anche sul numero di aprile del periodico “I Cinturelli”