6 aprile, 8 ore sotto le macerie: “Viva per miracolo, convivo con il senso di colpa”

7 aprile 2023 | 09:20
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6 aprile, 8 ore sotto le macerie: “Viva per miracolo, convivo con il senso di colpa”

Estratta dopo 8 ore dalle macerie del terremoto del 2009. Solo 3 i superstiti del palazzo, 18 le vittime. Viva per miracolo. La storia di Raffaella: “Questa città fa parte di me e io di lei”.  Dopo 14 anni il racconto straziante e ancora il peso del senso di colpa.

Dalla Puglia all’Aquila per studiare, poi – a pochi mesi dalla laurea – il terribile terremoto del 2009 dalle cui macerie è uscita viva per miracolo. Dopo 14 anni Raffaella si racconta per la prima volta a IlCapoluogo.it: “Questa città fa parte di me e io di lei”.

L’Aquila me la sono conquistata passo dopo passo, stradina dopo stradina e me ne sono innamorata. È difficile da spiegare, neanche i miei genitori hanno capito la mia scelta di rimanere qui, ma sono quelle cose che non si possono spiegare. Come l’amore, appunto”. Così Raffaella studentessa pugliese a L’Aquila racconta la sua storia di “sopravvissuta” al terribile terremoto del 2009 che l’ha sorpresa nel suo letto di Via Poggio Santa Maria, nella zona del Tribunale, nella casa che condivideva con altre due ragazze. Quella notte c’era anche il fidanzato di una delle due, che ogni tanto passava a trovarla. “Quando mi hanno estratta dalle macerie, la prima cosa che ho fatto è stato urlare il loro nome. Purtroppo sono stata l’unica a sopravvivere, del mio appartamento. In tutto il palazzo ci siamo salvati in tre, mentre i morti sono stati diciotto“.
La serata era iniziata come per molti, quel 5 aprile 2009 “Dopo una delle scosse più forti, ci siamo preparate lo zaino, che abbiamo messo all’ingresso in caso di emergenza. In realtà volevo andare via, uscire, ma una delle nostre amiche aveva il turno presto al bar, il mattino successivo, così siamo rimaste tutte in casa”. Poi la scossa devastante delle 3.32: “Ero nel dormiveglia, con la tv ancora accesa. In quel momento istintivamente mi sono buttata giù dal letto e mi sono accovacciata. Non potevo fare altro: poi abbiamo saputo che il nostro palazzo è crollato al 5° secondo di terremoto. Sentivo cadere pezzi di muro addosso e avevo l’impressione di sprofondare. Poi ho scoperto che non era un’impressione: tutti e quattro i piani del palazzo sono stati ritrovati all’altezza dei garage”.

Non è stato facile in quel momento fare i conti con la realtà: “Sono una persona normalmente pragmatica e all’inizio ho cercato di reagire con consapevolezza; mi era chiaro cosa fosse successo, ma nella mia testa mi trovavo ancora nella mia stanza, cercando una via di fuga che non c’era: ero praticamente intrappolata in un loculo, con una trave addosso che paradossalmente è stata la mia salvezza. Sentivo la mia amica che urlava, poi più niente. A quel punto nella mia testa tutta L’Aquila era crollata e questo mi ha fatto gridare; poi all’improvviso mi sono calmata e mi sono lasciata andare. Pensavo: adesso mi addormento ed è tutto finito”.
A scuoterla dalla rassegnazione, invece, il rumore di un elicottero: “A quel punto ho realizzato che c’era qualcuno là fuori, che non tutto era perduto”. Nel giro di qualche tempo, dilatato dal terrore di quei momenti, le voci dei soccorritori: “Sono riuscita a farmi sentire, ho dato i miei dati e mi hanno rassicurato che stavano venendo a prendermi“. Tra il dire e il fare, però, c’erano quattro piani collassati nei garage: “Hanno scavato un tunnel e poi un buco più piccolo da cui ho visto una luce“. Proprio in quel momento, però, un’altra forte scossa e le urla dei soccorritori: “Tutti fuori!”. “In quel momento ho pensato che fosse finita davvero. Ero a un passo da loro, ma in quelle condizioni di pericolo dovevano andare via: un soccorritore morto, non può più aiutare nessuno, no?”. Il buco si è richiuso per la scossa, la luce è sparita. Ma non si sono arresi. Verificata la stabilità del primo tunnel, sono tornati a bucare il muro di macerie che teneva imprigionata Raffaella. Un buco piccolo, non si poteva rompere molto, visto il rischio crolli: “A quel punto mi hanno lanciato una corda, dicendo che sarei dovuta essere collaborativa, loro da soli non potevano tirarmi su di peso. Mi hanno detto come legarmi e ho seguito le loro indicazioni riuscendo a superare quella minuscola apertura. Sa come ho fatto? Come una ballerina in spaccata, prima una gamba, con busto e testa, e poi l’altra gamba. Non sentivo niente, per l’adrenalina, ma appena fuori mi hanno fatto indossare i calzini, avevo i piedi in condizioni indescrivibili”.
Poi il primo soccorso in Piazza d’Armi, il ricovero all’ospedale di Sant’Omero e l’abbraccio con il padre, nel frattempo giunto dalla Puglia. Le condizioni, quelle di una sopravvissuta: “Avevo la gamba sinistra tre volte più grande del normale, la prendevo a pugni cercando di riattivare la circolazione. Avevo contusioni, tagli, ematomi e due ernie, ma…”. Un tentennamento, come un momento di imbarazzo, poi riprende: “… ma sono viva“.

terremoto l'aquila 2009 raffaella

Il motivo di quella sorta di imbarazzo, Raffaella lo spiega poco dopo: “Mi sono sentita in colpa. Mi sono spesso chiesta perché fossi sopravvissuta proprio io e non le mie amiche. Forse anche per questo mi sono subito buttata sulle cose da fare: concludere la tesi e la laurea. Sono rimasta poco in Puglia, avevo la sensazione che lì non potessero capirmi. Volevo stare a L’Aquila, dove c’era chi aveva subito le stesse cose che avevo subito io. E per questo avrebbero potuto capirmi”.

In realtà le cose non sono andate esattamente così, ma lo spiegherà più avanti. “Così ho preso un appartamento ad Alba Adriatica, vicino al professore con cui ho fatto la tesi. Mi sono laureata a settembre 2009 con 109. La commissione ha detto che sono parsa piuttosto agitata ed era vero, ma io sapevo anche perché: quella era la prima sessione che non si teneva più sotto le tende, ma dentro un edificio, con le mura“. Dopo la laurea, un periodo a Pizzoli, lavoretti saltuari, finché la famiglia, non riuscendo a strapparla da quell’amore, le compra una casa a L’Aquila, dove vive tutt’ora con il marito, conosciuto nel 2014 e con il figlio di sette anni.

Nel frattempo, il tempo aveva cambiato le cose: “Sì, in peggio. Ho provato a tenermi occupata in mille modi, per non affrontare quel trauma e le persone che mi rimproveravano di essermi salvata da sola, ma a un certo punto non ha più funzionato e ho avuto un crollo psicologico che ancora oggi provo a gestire con la psicoterapia”. Lì per lì penso di aver capito male, ma quando le chiedo come vive le annuali commemorazioni, mi rendo conto che aveva detto esattamente quello che avevo scritto frettolosamente sul foglio: “Non le vivo, non partecipo. Il “primo capodanno“, – così lo chiama, quello tra il 2009 e il 2010 – ho deciso di partecipare all’evento organizzato a Collemaggio. Lì però ho incontrato una persona, che conosceva le mie amiche che purtroppo erano morte, e che a brutto muso mi ha rinfacciato di essere sopravvissuta ‘da sola’ e, come aggravante, di essere ancora là. Mi ha detto che questa non era la mia città e dovevo tornarmene a casa. Da allora vivo il mio dolore da sola, e non solo il 6 aprile”. Chiedo conferma per la terza volta, per l’assurdità di quella “accusa”: “Sì, e non è stata l’unica persona. Ma io capisco e perdono: è il dolore che parla, che stravolge testa e cuore delle persone. Non hanno parlato loro, ha parlato il loro dolore e non posso fargliene una colpa”.

Per quanto riguarda la famiglia, non è sempre facile parlare del terremoto: “Con mio marito parlo tranquillamente, anche perché mi becca ogni tanto a fissare il lampadario e mi rassicura; con mio figlio no, è troppo piccolo. Dopo tutto sono il pilastro a cui deve appoggiarsi, non posso mostrare insicurezze. Anche con i miei non parlo molto del terremoto, non capiscono cosa sia tornata a fare a L’Aquila. Posso capirlo, probabilmente farei lo stesso con mio figlio, ma il sentimento che nutro verso L’Aquila non si può spiegare; si può provare a descriverlo, ma non si può trasferire agli altri. Come l’essere innamorati. Allora preferisco non parlarne. Quello che conta è che L’Aquila fa parte di me e io di lei. L’ho conquistata passo passo, dal primo anno in cui da sola attraversavo le sue strade con una mappa in mano, e come un’innamorata la seguirei in capo al mondo. Non c’è altro da dire”.

“Allora… buona vita”, ci salutiamo così. Non c’è altro da dire.