Le nuove stanze della poesia

Le nuove stanze della poesia, Il passaggio di Enea di Giorgio Caproni

Un'altra poesia di Giorgio Caproni per l'appuntamento con la rubrica settimanale a cura di Valter Marcone.

Un’altra poesia di Giorgio Caproni nell’appuntamento con la rubrica di Valter Marcone.

La raccolta Il passaggio di Enea costituisce un riepilogo e una sistemazione di quanto Giorgio Caproni aveva composto fino a quel momento; vengono riproposte, insieme a testi più recenti, le precedenti raccolte, da Come un’allegoria (1936) a Ballo a Fontanigorda (1938), a Finzioni (1941), a Cronistoria (1943), fino alle Stanze della funicolare (1952).

Come un’allegoria, Ballo a Fontanigorda e Finzioni formano una sorta di trilogia della giovinezza, popolata di volti femminili, feste paesane, musiche, balli, profumi, osterie. Si tratta di liriche brevi, spesso in forma di canzonetta, che rievocano il tempo dell’adesione carnale alle cose, dell’esultanza di chi si affaccia alla vita. Non mancano però i primi segni della labilità dell’esistenza, come il ricordo della morte prematura della fidanzata Olga. In un articolo del 1947 Caproni aveva rivendicato la potenza creatrice del linguaggio poetico, «che non trasmette ma genera una realtà»; il poeta inventa la realtà, dando vita al mondo che gli urge dentro. Caproni adotta moduli tipici della lirica pura: linguaggio analogico, fonosimbolismo, stilizzazione delle immagini, lessico manierato, gusto del frammento. Fedele al modello del monolinguismo petrarchesco, il suo vocabolario poetico è fatto di poche parole a forte valenza evocativa che tornano di continuo nelle liriche. La metrica non è regolare, i versi hanno in genere lunghezza inferiore all’endecasillabo e l’impiego della rima è libero.

Sul rapporto con Virgilio, troviamo esempi come l’opera di Thomas S. Eliot, il romanzo più grande di Hermann Broch, l’opera di Seamus Heaney. Il Novecento è sicuramente il secolo di Ulisse richiamato da Joyce a Saba . Enea rimane un poco nell’ombra . L’epopea di Ulisse sta tutta in quel tornare alla sua Itaca che ha ispirato decine di poeti e cantautori. Enea invece affronta un viaggio all’inverso, parte per non più tornare. La Terra Promessa è il luogo in cui Ungaretti si dilegua in Virgilio. Nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone Ungaretti assolutizza il mito, ponendolo in una fattura esistenziale, che ribolle. “Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto;/ Replica il mio le care tue fattezze;/ Nulla contengono di più i nostri occhi/ E, disperato, il nostro amore effimero/ Eterno freme in vele d’un indugio”. In Recitativo di Palinuro poi Ungaretti estrae il meglio di Virgilio .

La Terra Promessa esce nel 1950 per Mondadori; nel 1956 Vallecchi pubblica Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni che spiega così la nascita della poesia .
“Fu un’estate del primo dopoguerra ch’io, trovandomi a Genova per una visita, m’incontrai la prima volta (e si capisce mentre meno me l’aspettavo) con Enea figlio di Anchise. Me lo vidi di soprassalto davanti, in piazza Bandiera, e sebbene fosse un Enea di marmo, cioè quel monumentino a Enea che tutti i genovesi sanno, la mia emozione non fu minore di quanta ne avrei provata incontrando Enea in carne e ossa”. Conclude così, Caproni, in quella sua dichiarazione sul Corriere Mercantile nel 1959 : “Io ho girato molte altre città d’Italia, ma Enea non l’ho incontrato altrove. Perlomeno, non ho incontrato l’unico Enea ammissibile: l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine, amaro simbolo della nostra. L’unico Enea, insomma, che meritasse un monumento in mezzo a una piazza, emblema di tutti noi in questo tempo, mentre ci troviamo veramente soli sopra la terra, con sulle spalle una tradizione che tentiamo di sostenere mentre questa non ci sostiene più, e per la mano una speranza ancor troppo gracile per potercisi appoggiare, e che pur dobbiamo portare a compimento”.

L’Enea di Caproni è carnale, vivo, privo di ‘moto d’animo’. Come scrive Alessandro Fo in “ Il mio Enea” (Garzanti, 2020), nato in concomitanza con i 30 anni dalla morte di Caproni, a rivelare i legami tra il poeta e Virgilio, “è anche un libro necessario. Necessario per chi voglia comprendere a fondo l’umanità ferita e fraterna del poeta Giorgio Caproni, ma anche i traumi profondi della sua epoca e i destini generali di fronte a cui si è trovata… E necessario per chi (come me, come noi) crede fermamente che l’antichità abbia ancora un importante ruolo da giocare nell’oggi”.

Del Passaggio d’Enea :
Nel pulsate del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’avvampo
funebre d’una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dei fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto,
d’estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Ma è Caproni stesso che ci aiuta a comprendere con questo testo del 1963: “Attraverso il suo Enea, Virgilio ha saputo darci dell’uomo (di noi) una rappresentazione che ancor oggi è quant’altre mai attuale. Dico d’un Enea meno arma che vir (meno eroe che uomo), il quale, scampato alla totale distruzione della sua città, cerca di portare in salvo, sulle spalle, una tradizione che cade da tutte le parti e non lo sostiene più, mentre per la mano ha un domani ancora incerto… Quale altro poeta, mai, ci ha offerto uno specchio così preciso anche della tremenda solitudine e responsabilità dell’individuo d’oggi, diviso tanto dolorosamente fra identità da salvar nel salvabile, e speranza d’una nuova città da fondare, la quale ancora non può difenderlo ma anzi vuol essere da lui difesa contro tutte le furie?”.

Pier Paolo Pasolini – fin dal 1952, replicando il pensiero in un articolo del 1956, pubblicato su “Il Punto”, in concomitanza con Il passaggio d’Enea – riteneva Caproni “uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”.

da Il passaggio d’Enea. Prime e nuove poesie raccolte, Firenze, Vallecchi, settembre 1956.

Didascalia
Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo, come il mare.
Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.
Erano lampi erranti
d’ammotorati viandanti.
Frusciavano in me l’idea
che fosse il passaggio d’Enea.
2.
Versi
A l’accent familier
nous devinons le spectre.
I
La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo, e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d’un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l’occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!… Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t’aggrediscono – l’acume
t’aprono in petto, e il fruscìo, delle vele.
II
T’aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle molli cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma – entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell’ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi cui nebulosa e sfatta casca
la palla morta di mano. E se dice
il sangue che c’è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano – il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscìo delle streghe.
Ecco ancora alcune specificazioni su questa opera che Caproni fa nel corso di due interviste di cui riporto uno stralcio
Intervista a Giorgio Caproni a cura di Geno PampalonI, conservata fra gli inediti, ma di destinazione a oggi non rintracciata, 23 marzo 1981.
[…] di quale linfa si nutre questa tua solitudine?
[…] la vera solitudine dell’uomo d’oggi mi fu ispirata durante la guerra dalla vista di quel monumentino a Enea (del Baratta, credo) che si trova a Genova in piazza Bandiera, una delle piazze più bombardate della città. Enea con sulle spalle il peso di una tradizione crollante da tutte le parti (il padre Anchise), e per la mano un futuro anch’esso bisognoso d’essere sorretto non reggendosi ancora sulle proprie gambe. Enea simbolo, insomma, contrariamente alla tradizione classica, del punto di estrema solitudine raggiunto dall’uomo, e che tenta invano di salvare una tradizione morente e senza ancora potersi appoggiare a una sicura speranza, che invece deve sorreggere. Ne nacque il poemetto intitolato Il passaggio d’Enea.
Anche un poeta ha la sua Chernobyl. Colloquio con Giorgio Caproni, intervista a cura di Aurelio Andreoli, in «Fiera», 25 luglio 1986.
[…]
Conserva qualche certezza (umana, poetica, ideologica)? La sua è anche una poesia della crisi (personale e storica)?
Non mi piace esser chiamato «poeta della crisi». Certo è che viviamo in una società (in una cultura) estremamente friabile e asimmetrica, senza una sua precisa centralità: quella centralità (favola o mito, non importa) che ebbero l’età classica, quella cristiana del primo medioevo, quella illuministica ecc. Una centralità in base alla quale poter distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto ecc. Dicono alcuni che oggi vi siano più centralità, e che ciò sia un progresso. Sarà. Ricordi comunque il mio Enea, in disperata ricerca di un luogo dove fondare la nuova città, totalmente solo nel suo esilio con sulle spalle il peso d’una tradizione ormai crollante (Anchise), e per la mano una speranza quant’altro mai incerta, incapace ancora di reggersi sulle gambe (Ascanio). Un Enea scaturito, dopo una lunga dittatura, dalla terrificante esperienza della guerra, che ha investito in pieno la mia generazione e ha lasciato tante macerie non soltanto materiali.
Scrive Antonio Pane su Dialoghi Mediterranei : “ In questo archetipo Caproni racconta la sua scoperta, nell’estate del 1948, di un piccolo monumento all’Enea fuggitivo(…) posto in piazza Bandiera, una delle piazze più bombardate della città più bombardata d’Italia; e giunto lì, per giunta, dopo aver peregrinato, nel corso di due secoli, in altre piazze di Genova. Circostanze che, agli occhi di Caproni, fanno della statua un Enea «in carne e ossa», o meglio il simbolo dell’uomo in fuga da incendi e rovine, proteso a un futuro incerto. Un simbolo che si incide sulla viva carne del presente, raffigurando l’«uomo posto nel centro d’un’azione (la guerra), proprio nel momento della sua maggior solitudine: quando non potendo più appoggiarsi a nessuno (nemmeno al padre, vale a dire nemmeno alla tradizione ch’ormai cadente grava fragilissima sulle sue spalle) egli deve operare, del tutto solo, non soltanto per sostenere se stesso ma anche per sostenere chi l’ha sostenuto fino a ieri(…) (il padre; la tradizione).”

Un ‘opera dunque “Il passaggio d’Enea “ che racchiude anche un messaggio per noi . Infatti conclude Antonio Pane : “ racchiude, infine, un messaggio per noi, noi di qui e ora, soprattutto affidato al potere del canto disteso nel Passaggio d’Enea, dove, intorno al pilastro di Enea «solo nella catastrofe», che «in spalla | un passato che crolla tenta invano | di porre in salvo, e «per la mano | ha ancora così gracile un futuro | da non reggersi ritto», Caproni costruisce, tra i versicoli della Didascalia e quelli dell’Epilogo, in ampie arcate di endecasillabi (i Versi), il suo monumento al monumento che gli ha rivelato un aspetto decisivo del suo personale destino. Un aspetto che si irradia certo sul destino della generazione con «la guerra | penetrata nell’ossa»[1], ma che ha la forza di raggiungere il nostro presente. Se «Enea un pontile | cerca che al lancinante occhio via mare | possa offrire altro suolo […] l’imbarco sperato | da chiunque non vuol piegarsi», noi non possiamo non associare il suo «lancinante occhio via mare» allo sguardo sperduto dei disperati in disperante ricerca di un porto quale che sia (che a sua volta si riverbera nei nostri sguardi smarriti di esuli in patria, di expatriot, come il Jim Morrison commemorato da Patti Smith nell’Urlo della farfalla); e non possiamo non sottoscrivere l’appello fraterno (la fraternità attinta dal dolore) di questo «libro antifascista per genesi e natura» (Fo). (Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020)

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