Ennio Flaiano, l’arciabruzzese

L’Abruzzo e l’Italia non hanno mai dimenticato Ennio Flaiano, un abruzzese riconoscente. Un altro appuntamento con la rubrica I Cinturelli.
I Cinturelli – La rubrica settimanale del Capoluogo, il contributo di Alessia Ganga.
“Adesso che mi ci fai pensare, mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto; cioè l’orgoglio di esserlo che mi riviene in gola quando meno me l’aspetto (…). Un orgoglio che ha le sue relative lacerazioni e ambivalenze di sen¬timenti verso tutto ciò che è Abruzzo. Questo dovrebbe spiegarti il mio ritardo nel risponderti; e questo ti dice che sono nato a Pescara per caso: c’era nato anche mio padre e mia madre veniva da Cappelle sul Tavo. I nonni paterni e materni anche essi del Teramano, mia madre era fiera del paese di sua madre, Montepagano, che io ho visto una sola volta di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori d’oggi… Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora nu cristiane), la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscen¬do i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei. Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo, come regione remota: «Gli è più lontano che Abruzzi»); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella son le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare… Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?), con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno. Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue.” Questo scriveva Ennio Flaiano, scrittore, sceneggiatore, giornalista e umorista insuperato al collega e corregionale Pasquale Scarpitti raccontando di un suo improvviso “attacco di orgoglio abruzzese” durante un incontro con una comunità di emigrati a Montréal, in Canada. Lui, che a Pescara era nato il 5 marzo del 1910 in Corso Manthoné, ma vissuto poco. Ultimo di sette figli di Cetteo Flaiano e Francesca Di Michele a soli 5 anni era stato affidato dai genitori alle cure di una famiglia di amici di Camerino, per poi trascorrere il resto dell’infanzia e dell’adolescenza tra pensionati e collegi a Fermo, Senigallia, Brescia e…Roma.
Il 27 ottobre 1922 un giovanissimo Ennio Flaiano viaggiava infatti sul treno diretto verso la Capitale dove avrebbe frequentato, nel Convitto nazionale, gli studi superiori. Per una strada casualità il convoglio era pieno zeppo di giovani fascisti pronti a partecipare l’indomani alla storica Marcia su Roma. Quelle camicie nere, che a molti incutevano timore e rispetto, “riaffiorarono” spesso in aneddoti ironici e satirici negli articoli e nei personaggi teatrali e cinematografici di Flaiano che al Fascismo e a Mussolini riservò sempre un “sotterraneo dissenso” prima e un aperto disprezzo dopo: “Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità”.
Abbandonati presto gli studi di architettura, fu però chiamato ad assolvere l’obbligo militare partecipando, “senza colpo ferire”, alla guerra coloniale in Etiopia e annotando in un taccuino le sue riflessioni. Da quelli e da una conversazione con Leo Longanesi nacque il suo unico (e irripetibile!) romanzo, Tempo di uccidere, ambientato in un’Africa surreale immersa in una guerra allegorica, tanto spietata quanto ridicola, che gli valse nel 1947 il primo Premio Strega della storia della letteratura.
Tornato a Roma dall’Africa nel 1938 inizia la sua attività di giornalista e critico cinematografico scrivendo per i settimanali Omnibus, Oggi e poi Il Mondo di cui fu anche direttore. Frequenta l’Antico Caffè Greco, a via Condotti, “prima cellula” della Dolce Vita romana ante litteram, incontrando registi e letterati come Aldo Palazzeschi, Carlo Levi, Sandro Penna, Vitaliano Brancati, Vincenzo Cardarelli, ma anche Irving Penn, Orson Welles. Nel 1943 comincia a scrivere per il cinema fino all’incontro, nel 1947, con Federico Fellini con il quale firmerà ben 10 film tra i quali capolavori del calibro de’ La strada, La dolce vita, 8 e mezzo e Giulietta degli spiriti. Un’attività, questa di sceneggia¬tore, che proseguirà fino al 1971, lavorando con tutti i grandi del cinema italiano: Luigi Zampa, Alberto Lattuada, Mario Soldati, Mario Monicelli, Dino Risi, Michelangelo Antonioni, Eduardo De Filippo, Pietro Germi e Elio Petri, solo per citarne alcuni. Eppure, nonostante gli allori raccolti, Flaiano continuò ad avere nei confronti della “settima arte” un atteggiamento ambivalente: “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile”.
Per la verità, con un tratto, questo sì, tipicamente abruzzese, Ennio Flaiano mostrava diffidenza per qualunque forma di celebrazione, dissacrando tutto, dalla religione alla storia, dagli ideali politici all’amore, risultando inversamente proporzionale a qualunque tendenza, moda e civetteria:
“La religione è finita. Non c’è più nessuno che si vanti di aver portato a letto una suora” (Frasario essenziale per passare inos¬servati in società, 1986)
“«Credete in Dio?». «Io sì, ma è Dio che non crede in me».” (Autobiografia del blu di Prussia, 1974)
“Io non sono comunista perché non me lo posso permettere.”
“I fascisti in Italia si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti” (Frasario essenziale per passare inosservati in società, 1986)
“I grandi amori si annunciano in modo preciso. Appena la vedi dici: chi è questa stronza?” (Frasario essenziale per passare inosservati in società, 1986)
“In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All’occorrenza essere capaci di andare a letto con la propria moglie.” (Un marziano a Roma, 1956).
Ed in effetti, fatta eccezione per la “luna di miele” trascorsa con l’intellighenzia letteraria italiana post-bellica grazie al suo primo e ultimo romanzo, Tempo di uccidere, Ennio Flaiano è sempre rimasto un genio fortunatamente incompreso proprio perché voleva essere compreso da tutti: “Il difetto principale dello scrittore italiano è quello di voler scrivere bene. Io cerco di scrivere male ‘apposta’, nel tentativo di farmi capire.”
Nel 1960 fu messa in scena una suggestiva versione teatrale del suo racconto “Un marziano a Roma” che narrava il singolare quanto imprevisto atterraggio sulla terra, precisamente a Roma, Villa Borghese, di una aeronave da cui sbarcava Kunt, proveniente da Marte. La presenza di Vittorio Gassman nei panni del protagonista non lo misero al riparo da fischi e pernacchi. La società borghese romana non accettò la parabola della diversità derisa e sbeffeggiata, di una società attratta dall’effimero, omologata e capace di concedere, con voracità consumistica, una notorietà improvvisa quanto aleatoria. Flaiano gli rispose con la consueta e infaticabile ironia scrivendo: “L’insuccesso mi ha dato alla testa”.
Nel 1971 viene colpito da un primo infarto. “Tutto dovrà cambiare”, scrive tra i suoi appunti. Inizia a rimettere ordine tra le sue carte, per dare alle stampe una versione organica della sua instancabile vena creativa: appunti sparsi su fogli di ogni tipo vengono lentamente catalogati. Ma gran parte di questo corpus di scritti è destinato a essere pubblicato postumo. Il 5 novembre del 1972 inizia a pubblicare sul “Corriere della Sera” alcuni brani autobiografici. Il 20 novembre dello stesso anno, mentre è in clinica per alcuni accertamenti, viene colpito da un secondo, ma questa volta fatale, infarto.
Alla sua memoria, nel 1974, la sua città natale, Pescara, istituì il Premio Flaiano, un importante concorso che assegna il Pegaso d’oro a personalità che si sono distinte in ambito letterario, cinematografico, teatrale, televisivo e radiofonico. Anche quest’anno, il 3 e il 4 luglio, la manifestazione si è svolta presso il Teatro Monumento Gabriele D’Annunzio intitolando, per l’occasione, i premi di italianistica a Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano deceduto in seguito ad un agguato in Congo.
Insomma, l’Abruzzo e l’Italia non dimenticano Flaiano, un abruzzese riconoscente, al quale molti artisti continuano ad essere riconoscenti. Tra questi anche l’avezzanese Lino Guanciale, che proprio il 9 luglio, sulla magnifica scalinata di San Bernardino a L’Aquila, ha reso omaggio alla vita e alle opere di Ennio Flaiano recitando in un suggestivo spettacolo fatto di musica e parola all’interno della rassegna “I Cantieri dell’Immaginario”.
E chissà che Flaiano non se ne stia lì, in cielo, a guardare lo spettacolo, come se ne stava sulla terra, “con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole” ad inviarci la doccia fredda del suo sarcasmo anticelebrativo, qualcosa del tipo: “Coraggio, il meglio è passato”.